lunedì 11 agosto 2014

C'erano le fate e i lupi mannari

Ai tempi in cui questo torrente riarso scorreva tra due ali gentili di limoneti e oliveti terrazzati; quando i muri delle casette erano fatti di malta, pietre di fiume e tegole e si andava a letto con le galline - perché le galline dormivano con i cristiani - ebbene in quel tempo ormai lontano, nelle sere d’inverno e di pioggia, i grandi raccontavano le storie ai bambini. 
Erano storie vere e un po’ paurose, incredibili ma non fantastiche, realmente accadute a un nonno, a un cugino o a una zia, che le raccontavano, da testimoni oculari, a bambini impauriti ma avidi di ascoltarle. 
Questi bambini erano i miei nonni e i miei genitori, che poi le hanno raccontate a me e alle mie sorelle. Non c’erano ipad, allora, per tenere buoni i bambini; c’erano invece i folletti e i lupi mannari, le lune piene e le bambine fatate, gli spiriti dei morti che vagavano per le strade e serpenti mostruosi che facevano impazzire i malcapitati che avevano la sventura di vederli. 

Di storie incredibili non ne accadono più; le terrazze di limoni e ulivi le hanno bruciate i pastori o spianate i palazzinari e al posto delle galline c’è il Pulcino Pio; le case sono fatte di cemento armato, così armato da aver sconfitto gli spiriti e le fate. Quelli che raccontavano di loro, ormai, sono spiriti anch’essi. 

Non c’è nulla di più triste e definitivo di una storia che non viene più narrata: forse solo una giornata troppo corta perché troppo piena di cose da fare. Adesso, mettete un ipad in mano ai vostri figli (come ho fatto io per poter scrivere questo post) e prendetevi il tempo di leggere le tre storie che, qui di seguito, ho deciso di strappare all’oblio. 

Le fate nei capelli 

La bisnonna Catina aveva una sorellina di sei o sette anni; era una bambina strana, per due motivi: aveva una forza sovrumana e i suoi capelli erano pieni di “fate”, cioè di nodi inestricabili. Non si sa se le due cose fossero correlate; fatto sta che la bimba usciva da sola, prima dell’alba, per raccogliere sacchi di erba e pale di fichi d’India che poi trasportava a spalla fino a casa; sollevava pesi come un uomo adulto e in casa puliva e rassettava come una mamma. E questo era ben strano. Un giorno, però, si ammalò e morì (cosa che, a quel tempo, strana non era). Prima di metterla nella bara, la madre le tagliò le trecce per serbarle come ricordo e le appese ad un chiodo in cucina. Quando però la piccola bara fu presa in spalla per essere trasportata al cimitero, le trecce “fatate” si staccarono dal chiodo e seguirono a mezz’aria il corteo funebre. Si depositarono infine sul coperchio della cassa da morto e nessuno ebbe più il coraggio di staccare le “fate” dalla bambina, così che, insieme, finirono nella tomba. 

(Testimone oculare: la bisnonna Catina, nonna di mia madre). 

L’uomo che non c’è 

Santo, il padre della zia Maria, stava risalendo con l’asina il greto del torrente per portare i sacchi di grano al mulino del paese. Era partito troppo presto e la luce dell’alba era ancora così lontana che tutto attorno era buio pesto. L’asina, d’un tratto, piegò le ginocchia e decise di sedersi per terra. Non c’era anima viva a cui chiedere aiuto e una sola persona non può nulla contro un’asina seduta. All’improvviso, Santo vide un uomo che camminava lungo il letto secco del torrente. Gli chiese aiuto; quello, senza dire una parola, gli si mise accanto e insieme iniziarono a spingere la bestia. L’asina si mosse un po’, ma non dal lato in cui spingeva l’uomo silenzioso. Santo si spazientì. 
“Spingete più forte! Non ne avete forza nelle braccia? Ma che siete morto?” 
L’uomo lo guardò e gli disse: “Guardate voi”. Poi si girò: e Santo vide che dietro era vuoto, cavo, e al posto del suo corpo non c’era nulla, solo il buio. Pieno di orrore, Santo diede un calcio all’asina e cominciò a correre, seguito dalla bestia. 
Si voltò indietro: l’uomo era sparito nel nulla e l’alba era ancora lontana. 

(Testimone oculare: il padre della zia Maria, cugina di mia nonna). 

L’uomo in frac

Bastiano tornava dalla campagna. Era notte fonda, l’acqua a quel tempo passava nelle saje (i canali) a ore strane e a volte bisognava alzarsi dal letto in piena notte per irrigare i limoni. Bastiano camminava veloce; il paese era a due chilometri, la strada tutta curve, senza lampioni. 
Ad un tratto, Bastiano vide un fascio di luce. 
“Che strano - pensò - una macchina a quest’ora”. Ma passarono i secondi e non comparve nessun’auto. Dopo qualche curva, ormai alle porte del paese, Bastiano si fermò, atterrito. Lungo la strada gli veniva incontro, con passo spedito, uno strano signore; era vestito di bianco, in testa un cappello a cilindro, la figura elegante, lo sguardo fisso davanti a sé. A quell’ora e in quel luogo, quell’apparizione non aveva senso. Era un diavolo? Un angelo? Sicuramente non era di questa terra. Bastiano non aspettò di scoprirlo. Corse a gambe levate, corse senza voltarsi e raggiunse le prime case col cuore che gli scoppiava in gola. Di quel signore elegante che camminava di notte lungo le vie di un paese di contadini, nemmeno l’ombra. 




(Testimone oculare: Bastiano, mio nonno) 

Quando me le raccontavano, queste storie mi mettevano in corpo un terrore pulito, la sensazione di appartenere ad una realtà misteriosa dentro cui tutto poteva succedere. Adesso, credo che quella della bambina con le “fate” nei capelli fosse solo una storia di sfruttamento di minore con dreadlocks (anche mia figlia ce li ha: è bastato non pettinarla per una settimana); che Santo era probabilmente un buontempone pieno di fantasia e che mio nonno doveva aver bevuto qualche bicchiere di sambuca prima di tornare a casa. 
Deve essere così, altrimenti non mi spiego come mai spiriti, fate e asine non si facciano più vedere in paese. C’era un lupo mannaro, la cui identità era nota a tutti, così come la sua abitazione: ma è morto e non ha lasciato eredi. C’erano le “mavare” guaritrici che leggevano la mano. C’era forse la magia, tra gli alberi e il buio. 
Ma, di tutto questo, non è rimasto più nulla.

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