venerdì 18 dicembre 2015

Agorafobia


C’è una piazza bellissima, dietro l’angolo di casa mia: squadrata, bianca, armoniosa. Vi si affacciano palazzi antichi, una chiesa, le Fontane Lombardesche. Si trova in cima al Colle delle Capre, nella parte vecchia della città. 
Quando la luce del tramonto la taglia, ispira riflessioni profonde e definitive - o ariose e volatili, a seconda della temperatura. 
Due statue si fronteggiano: Panfilo e Bernardino, glorie dell’Umanesimo. A parte queste due sentinelle di pietra, di solito la piazza è vuota. Deserta. Silenziosa. Metafisica e immobile. 
Bella, eh: ma le piazze vuote sono luoghi inerti. Bisognerebbe riempirle, meglio se di bambini. Il mio è un parere interessato, visto che io di bimbe ne ho a iosa, e le spedirei volentieri in giro per le piazze, per levarmele di torno un paio d'ore (come faceva mia madre quando doveva lavare i pavimenti di casa).
Che poi, le mie, se stanno troppo a lungo chiuse in casa, a un certo punto si fanno venire strane idee per la testa. Idee di solito irreparabili.
(Come quella volta che Bianca mi chiese:
- Mamma, mi dai un po' di farina?
- Cosa ci devi fare, tesorino bello?
- La pizza.)




Io ce le manderei le mie figlie a divertirsi un po' fuori, se non fosse che non si possono più lasciare i bambini da soli nelle piazze. Pare che sia un reato: abbandono di minore. 
E poi le mie sarebbero le uniche: le altre mamme non mandano i propri figli da soli a rincorrere palloni, a giocare a nascondino, ai quattro cantoni, a strega comanda colore, a meno che non siano guardati a vista o non siano protetti da recinzioni adeguate, modello "muro di filo spinato ungherese". Troppi pericoli imprevedibili. E pazienza se l’alternativa è lasciarli abbronzare ai raggi ultravioletti di ipad o TV nel salotto di casa.
La conseguenza è che i nostri figli stanno diventando dei portatori sani di analfabetismo motorio; ragazzini che, quando si ritrovano a giocare liberi in un cortile di scuola, non sanno mettersi d’accordo per stabilire o anche solo capire le regole del gioco: cadono, litigano, si fanno male, saltano e urlano senza costrutto, perché non sono abituati a gestire in autonomia occasioni ludiche non predisposte da adulti. 
Che mondo meraviglioso abbiamo creato, negli ultimi trent'anni, per questi bimbi iper-protetti e soli. Tutti campioncini di salto in alto e di judo, musicisti provetti, poliglotti. Tutti intruppati, accompagnati, scortati, depositati davanti a uno schermo (perché le giornate sono lunghe anche per i genitori) o  vicino ad un istruttore col brevetto. Tutti presi per mano e condotti lungo sentieri gloriosi di giochi creativi coatti, di lavoretti fatti a mano dietro la guida di adulti illuminati e tremebondi. 
Per modificare antropologicamente una generazione ci vuole poco: basta un po’ di paura, un velo di senso di colpa, una manciata di idee originali spacciate da pedagoghi con la vocazione del carceriere – o del Grande Fratello. 
Che responsabilità enorme, in effetti, decidere che tua figlia sia in grado di giocare da sola, all’aria aperta, senza che la cosa finisca necessariamente in tragedia. 
Ma, appunto, assumersi le responsabilità dovrebbe essere il compito di noi adulti. Quegli stessi adulti che, da bambini, erano lasciati per pomeriggi interi a giocare da soli in cortile, per strada, nelle piazze, con l’unica raccomandazione di non accettare caramelle dagli sconosciuti. 
Troppa libertà, a quanto pare, ci ha trasformati in secondini diffidenti, in droni occhiuti pronti alla guerra chirurgica contro le cadute, le automobili, gli angoli bui, i malintenzionati, i bulli che portano via la palla. 
Però mi chiedo: dopo esser cresciuti sotto il vetro infrangibile di una teca che li ha conservati incolumi, questi nostri figli riusciranno a non avere paura del mondo all’aria aperta, quando l'affronteranno senza i nostri occhi addosso? 
Perché è pure vero che una farfalla imbalsamata non ha nulla da temere, ma io colleziono figlie vive, non bellezze impuntate con gli spilli. 
E quando nevicherà e la piazza diventerà un ovattato campo da gioco, spedirò fuori le mie bambine con sciarpa guanti e cappello, affidandole allo sguardo protettivo di Panfilo e Bernardino.  
Oppure, alla fine, mi mancherà il coraggio e starò a guardarle da quest'angolo della piazza, mentre loro fanno la pizza con la neve e io batto a terra i piedi gelati e conto i minuti che mi separano dall'abbraccio col mio termosifone. 


(Quando servono foto meravigliose per illustrare pensieri storti, è meglio chiedere a Sergio Innocente, come ho fatto io per queste immagini di Piazza Maggiore).



Post correlati

giovedì 19 novembre 2015

#####. Rughe verticali e orizzontali

Sul mio viso crescono linee verticali, come parentesi incise che mi disegnano diversa. Le scopro all’improvviso, se mi guardo allo specchio mentre parlo e rido: eppure la mattina, appena sveglia, sono sicura che non c’erano. 
C’erano solo le borse sotto gli occhi, il posto in cui finiscono le ore non dormite, le lacrime non del tutto versate, i film visti fino a tarda notte. 
Questi segni, invece, compaiono nello spazio di un giorno, misteriosi per provenienza ma utili per fare di conto, come un pallottoliere. 
Le chiamano rughe d’espressione: arrivano perché mi esprimo. 
Penso che siano verticali perché la vita è in salita: da zero a cento è una bella arrampicata (e non sono nemmeno a metà strada, a dio piacendo). Poi, le corde a cui ti sei aggrappata nei punti difficili restano lì, appoggiate alla parete, testimoni dell’ascesa, segno che sei andata avanti. 
Le rughe orizzontali, invece, sono ponti sospesi tra lo stupore e il corruccio, il sole troppo forte o le cose che non capisci. Sono le sorprese di ogni giorno che percorrono la tua fronte. 
Come un'apparizione improvvisa, fanno paura: perché prima non c’erano e adesso ci sono; come i figli, che arrivano, ti scompigliano e ti deformano. Ma se loro sono lì, è perché ci sei anche tu. 
Mi piacerebbe che la mia faccia non venisse scavata e solcata dai giorni che passano, eppure, una volta che ha preso questa forma, la mia faccia è ancora più mia. 
Non posso lisciarla e tirarla come le lenzuola perfettamente stese di mia nonna. Non più di quanto io possa cancellare le scelte sbagliate o le troppe sigarette fumate. 
Potrei chiedere a uno stuccatore di riempire i solchi con una spatola o un bisturi, ma tanto varrebbe indossare una maschera o un burka. 
Non ho mai avuto la tentazione di farmi fare la caricatura dai pittori di strada, forse perché le caricature non mi fanno ridere.
La mia faccia diventerà un reticolato di cardi e decumani per sentimenti ed espressioni in libera circolazione. O, se preferite, un grappolo di hashtag, una lunga strada ferrata.
Mi ci abituerò, vi ci abituerete. 

- Mamma, hai due ferite sulla fronte. 
- Non sono ferite, sono rughe. 
- Fanno male, le rughe? 

No, bambina. Fanno più male le fughe.

sabato 14 novembre 2015

Paris is a moveable feast

E non chiamateli “nuovi barbari”, per favore. Un po’ di rispetto per quei valorosi guerrieri a cavallo che, galoppando pancia a terra dalle steppe al Reno, travolsero e sbaragliarono uno dei più formidabili eserciti di tutti i tempi, quello romano.
Questi sono degli idioti in calzamaglia nera che sparano alle spalle di persone inermi.
Altro che “nuova barbarie”: stiamo parlando di gente che ha sì e no le palle per tagliare la gola ad un ostaggio solo dopo avergli legato le mani dietro la schiena; gente che, per conquistare una donna, conosce più o meno due tecniche di seduzione: o costringerla con la forza, oppure accontentarsi di 72 vergini che lo aspettano nell’aldilà; per convincerle, però - gli hanno detto - deve ridursi in coriandoli di carne. 
Non chiamateli barbari, perché i barbari erano bruti, truci e poco raffinati, non parlavano correttamente la lingua imperiale e probabilmente puzzavano pure: ma le loro donne se la passavano meglio delle matrone romane.
Questi sono macellai sfigati, addetti al mattatoio, coglioni esiziali.
Sono il braccio, ma mancano di testa e di onore. Invidiano ciò che odiano, per questo lo distruggono. 
Questi non sono la barbarie, non sono l’Islam, non sono il nemico. Sono persone come te e me, con un nome e un cognome. 
Ecco perché non li odio e non li capisco. Mi fanno orrore.

mercoledì 21 ottobre 2015

70

Se hai un papà alto e dalle spalle larghe, cresci sentendoti sempre al sicuro. La sua sagoma imponente ti fa ombra, si fa ombrello per le intemperie. Ti ripara anche quando non c’è, anche quando un ombrello da solo non basta. Non è la sua presenza fisica che fa la differenza: è quella sensazione di sicurezza, avvolgente e ferma, che hai respirato negli anni in cui lo hai avuto accanto mentre crescevi. Ormai fa parte di te.

Mio papà è alto, è forte, è buono. Le cose importanti le dice stando zitto: si fa capire con la postura. Quando aveva tre figlie adolescenti, ogni tanto giravano dei ragazzetti per casa. Lui non li degnava di uno sguardo; e loro, più venivano ignorati, più lo temevano e rispettavano. E poi aveva le mani grandi.

Non so che forma abbiano le lacrime di mio padre, perché non le ho mai viste e questo mi ha abituato a non fidarmi delle lacrime di un uomo. O a non considerarle normali. 
So invece quale aspetto assume la sua sofferenza, perché quella l’ho vista: è silenzio, spalle girate, sguardo lontano. 

Quando ero una ragazzina, l’ho osservato con occhi impietosi e ho deciso che andava ridisegnato tutto daccapo. Ci ho pure provato a spiegargli come avrebbe dovuto essere, ma non è servito a granché: è testardo e ha poca fantasia, ha preferito restare com’è: un po' John Wayne, un po' nonno di Heidi. Un duro dal cuore tenero. 

Lui è un uomo di poche parole e di poche idee, gusti semplici e modeste ambizioni: io, tutto il suo contrario. Capirsi non è mai stato facile. Io un vulcano attivo, lui spento. Spento, non estinto: quando lava e lapilli venivano fuori, era sempre una Pompei. Entrambi vulcani, ad ogni modo. 
Mi ha regalato il mio primo libro.

Ha una frase, sempre la stessa, che ripete in tutte le occasioni: “Sii sempre te stessa”. Il fidanzato mi lasciava per un’altra? “Sii sempre te stessa”; dovevo prendere una decisione epocale? “Sii sempre te stessa”. Papà, m'è crollato il mondo addosso: “Sii sempre te stessa”. 
Oggi ho finalmente capito perché non servono altre parole: mi è venuto in mente che, se proprio ci tiene tanto a che io sia sempre me stessa, forse è perché gli sono sempre piaciuta così. 

E ora trovatemi una definizione migliore dell’amore di un padre per sua figlia.

mercoledì 7 ottobre 2015

Untori

Ho tre figlie. Tutte e tre, nell’arco di dieci anni, sono state sottoposte a regolari cicli di vaccinazione: abbiamo fatto tutto, dalla meningite alla varicella, dai vaccini obbligatori (ancora nel 2006) fino a quelli solo consigliati. Su suggerimento di un pediatra coscienzioso e integralista, le ho vaccinate perfino per il Rota virus (cacarella). 
Per la prima figlia (2005), non mi è nemmeno venuto in mente di mettere in discussione l’opportunità del vaccino: mi sono presentata agli appuntamenti con lo stesso stato d’animo con cui la portavo ai bilanci di salute. A quel tempo, il vaccino era trendy.
Con la seconda (2009), l’approccio è stato altrettanto sereno, anche se il panorama di posizioni sulla questione stava cominciando a diventare variegato. 
C’era già una coppia, nel circuito delle cene tra amici del sabato sera, che aveva deciso di non vaccinare i propri figli. Ricordo che ho appreso questa notizia con la stessa blanda e astratta ammirazione con cui ascoltavo i loro racconti sulla scuola steineriana, sulla consacrazione ai gruppi di acquisto bio, sulla crociata contro la televisione (i nostri figli guardano solo DVD di cartoni animati equo-solidali!), sul parto in casa con assistenza dell’ostetrica sciamana, sui giocattoli-solo-di-legno e tutte quelle virtuose, coscienziose e soprattutto costose pratiche di vita che consentono una salutare simbiosi con la natura e il pieno di armonia cosmica, anche se vivi in centro e non hai il giardino. 
- Scherzi, i vaccini? E io dovrei fare iniettare un veleno nel corpo dei miei bambini, per fare gli interessi delle multinazionali e senza che vi sia alcuna necessità medica? Ma tu il morbillo non l’hai avuto da piccola? E la varicella? Ci siamo passati tutti, due settimane a letto e qualche crosta, non si muore certo per una malattia esantematica. Anzi, l’organismo si rafforza pure, i bambini crescono più resistenti ai virus. 

In effetti. 

Ma è solo con la mia terza figlia (2012), che le cose sono cambiate, così come il clima e le tendenze. 
Ed è arrivata la paura, la mia prima vera e più grande paura, più grande di quella per l’amniocentesi, più grande di quella per il parto di prova a tre anni dal primo cesareo. 
La vaccino sì o no, questa bambina? 

Il primo vaccino va fatto a pochissimi mesi. 
È notte, si è appena addormentata, ancora attaccata al seno; io navigo su internet col computer portatile sul cuscino (“è vicino alla sua testolina ancora molle, con quei neuroni disorientati, timidi, piccoli piccoli…non è che le onde elettroqualcosa del wifi le bloccano la crescita cerebrale?”). Salto da un link del terrore all’altro. I vaccini e l’autismo; un medico ha fatto delle ricerche, sembra che ci sia un nesso. Sì ma sono ricerche smentite dalla comunità scientifica. Sì ma vuoi mettere gli interessi delle multinazionali dei vaccini? Pensi che non cercheranno di insabbiare tutta la questione? Lo screditeranno, diranno che è un ciarlatano. E il mio pediatra? Perché continua a consigliarmi di vaccinare le mie figlie? È un ignorante scriteriato? Lo pagano le multinazionali? 
Vaccini e autismo; vaccini e ritardo mentale; vaccino e quantità di alluminio nei vettori. 
No, è troppo pericoloso. Non la vaccino la mia terza figlia. 
Però: perché lei no, e le altre due sì? 
E se tra due anni prende la meningite e muore? 
Se le viene una forma virulenta di morbillo e muore? 
Se le viene la rosolia mentre aspetta un bambino e muore? 
Ok. La vaccino, ma non subito. A un mese è ancora troppo piccola. 

Così, col cuore che ha tremato per giorni e giorni, ho deciso qual era il rischio che volevo correre per mia figlia: i vaccini sì, ma posticipati di qualche mese e non tutti in una volta, non tutti insieme. E solo se, alla data del vaccino, fosse stata in perfette condizioni fisiche. 
Ho tremato fino alla settimana scorsa, quando, finalmente, abbiamo fatto l’ultima punturina. 

Nel frattempo, sono aumentati in modo esponenziale gli amici che hanno deciso di non vaccinare i loro figli. Attualmente, sono la maggioranza dei miei conoscenti. 
All’inizio, pensavo che questa decisione implicasse solo la scelta – personale e quindi sacrosanta - di quale rischio correre: gli effetti collaterali del vaccino o l’esposizione alle malattie? Ognuno, in tal senso, ha diritto di prendere la decisione che ritiene più vantaggiosa o opportuna. 
Ma ora so che non è così. 
Se io decido di vaccinare mia figlia, mi assumo un rischio che è individuale (ci va di mezzo solo lei, se le cose vanno storte) e, nel contempo, contribuisco statisticamente a debellare la malattia in questione: all'assunzione individuale del rischio, corrisponde un aumento della sicurezza collettiva. 
Se non la vaccino, invece, scarico sulla comunità il costo di un pericolo (minuscolo ma reale) che ho deciso di non correre individualmente. E lo posso fare con ragionevole sicurezza, proprio perché la quasi totalità degli altri bambini è vaccinata. 
È un atto di protezione altamente egoistico: evito una fonte di rischio personale aumentando il rischio sociale, perché diminuisce la cosiddetta "immunità di gregge".
Pazienza, mi laverò la coscienza comprando solo la marca di caffé che non sfrutta il lavoro delle donne e dei bambini colombiani. Qui a casa mia, però, la solidarietà si ferma sulla porta della cameretta dei miei figli. 

Significa che i vostri figli non vaccinati, che sono ormai troppi, rischiano molto di più, adesso, di contrarre malattie che prima, grazie alla maggioranza vaccinata, avevano un'incidenza statistica infima. Rischiano di più i vostri figli e rischiano di più tutte quelle persone che non si sono potute vaccinare per motivi di salute (adulti e anziani). Perché la storia che non si muore di morbillo, diciamocelo, è una cazzata.

Non abbiamo conosciuto epidemie e tassi a due cifre di mortalità infantile per mezzo secolo, solo per un motivo: le campagne di vaccinazione di massa. 
Sarò una madre scriteriata, ma mi sembrano molto più utili e ragionevoli di una crociata contro l’olio di palma.

lunedì 14 settembre 2015

Here we go




Sono un’ottantina di facce, ognuna dotata di nome, cognome e zaino colorato: si trovano da qualche parte, là fuori, e mi stanno aspettando. 
Entro sabato le avrò viste tutte ma non avrò ancora imparato i loro nomi. Il mio lo scriverò alla lavagna e poi non lo useremo più, perché io sarò “la prof d’italiano” - se tutto va bene e non mi avranno intanto trovato un soprannome. 
Fra un paio di giorni toccherà a me entrare in classe e offrirmi ai loro occhi curiosi, alle loro orecchie disorientate, ai loro cervelli tremanti. I nasi fiuteranno paura ed eccitazione, esitazione e sicurezza. Mi vedranno sorridere spavalda e non sapranno che io sorrido sempre, quando sono emozionata e intimorita.
Mentre metterò la firma sul registro, richiamerò alla mente tutto quello che ho imparato e capito studiando per concorsi, corsi di abilitazione e di formazione: e cioè che l’unica cosa che serve per insegnare quello che sai, la scopri solo quando hai quelle facce davanti. 
Saranno in tanti e io sarò da sola, armata di un registro, un fastello di libri e una LIM mal funzionante alle spalle, il temibile equipaggiamento di serie; la penna no, me la dovranno prestare loro, perché io non ho mai una penna, quando serve. 
Non so, tra alunni e professoressa, chi pretenderà di più dall’altro. So che non basterà chiedere, che inizierà una lunga e sotterranea guerra di nervi, a chi resiste di più, a chi cede più tardi all’abitudine e alla monotonia del gioco di ruolo.
Ci saranno i momenti dell’esaltazione e quelli dello sfinimento, delle sorprese e delle delusioni, della gloria e della disfatta. In nove mesi, si ha il tempo di assuefarsi persino all’altalena di noia ed emozioni su cui si regge in bilico un intero anno scolastico. 
Ma il nostro primo giorno di scuola resterà unico e bisognerà che mi ricordi di guardarli subito negli occhi, tutti e ottanta, uno per uno, perché sappiano che io li vedo, come loro vedono me. 

lunedì 20 luglio 2015

Passerella a nord-est



Al Comune di Roccalumera si conoscono tutti. Per questo, l’impiegata che mi accoglie sull’uscio della portineria mi chiede per prima cosa chi sono e da dove vengo. Vorrebbe dettagli sulle mie ascendenze dirette e indirette, probabilmente per capire qual è l’ufficio del parente prossimo in cui mi deve smistare. Io però ho una missione precisa da compiere, per il bene della comunità: non sono venuta per ottenere un favore personale - anche se forse per loro è lo stesso: si dice che, a queste latitudini, i servizi erogati dai Comuni siano tutti dei favori personali. 
- Potrebbe cortesemente dirmi a chi posso segnalare lo stato increscioso in cui si trova l’arredo urbano del lungomare? 
L’impiegata, da curiosa, si fa improvvisamente ilare. 
- Ah ah ah ah! Ha tempo da perdere? 
- Sì. Sono in vacanza. 
- Non saprei con chi farla parlare. 
- Il sindaco? 
Lo so che il sindaco, in questi casi, è circondato da un cordone sanitario per tenere a debita distanza le rompiscatole stagionali come me; ma mi piace farla ridere, quest’impiegata. Chissà come si annoia, di solito.
- Ah ah ah ah! Il sindaco qui non viene mai. Sa, è un medico: è occupato nel suo studio coi pazienti. 
- Ah. E che faccio allora? Lo cerco nel suo studio e vedo se mi riceve tra un paziente e l’altro? 
L’impiegata è colpita dall’originalità della mia idea. 
- Ma lo sa che forse potrebbe funzionare? 
- Ormai che sono qui, però, potrei provare a parlare con qualcun altro. Un assessore all’Urbanistica? Un segretario? Un vicesindaco? 
- Ah ah ah ah! Allora ha veramente tanto tempo da perdere! Carmelo, con chi potremmo farla parlare questa ragazza? 
Carmelo è un dipendente comunale di passaggio in corridoio; si assume la responsabilità di guidarmi fino all’Ufficio Tecnico. 
L’impiegato che mi riceve è un signore serio e abbronzato. Mi ascolta, all’inizio diffidente, poi via via più sollevato. È evidente che l’enormità della mia richiesta fa di me una grana passeggera e inoffensiva. 
- La scaletta che porta in spiaggia è arrugginita e pericolante – spiego infervorata - l’ultimo scalino dista dalla sabbia mezzo metro: i bambini e gli anziani salgono e scendono con difficoltà. 
- Ma non c’è la pedana di legno sotto la scaletta? 
- Vuole dire quelle assi mezze marce inchiodate alla buona e ormai ridotte a un tappeto scheggiato? 
- Le usiamo solo da tre anni – risponde lui, ferito. 
- Sì, la pedana c’è; e pure il dislivello. Non potevate, come gli altri anni, far passare il bobcat per spianare la spiaggia e colmare il vuoto? Non dico di sostituire la pedana o far ridipingere la scaletta arrugginita… 

Adesso l’impiegato è ferito e indispettito. Tira un fatalistico sospiro e mi guarda come se io fossi il cavaliere Chevalley e lui il principe di Salina sul punto di spiegarmi i mali atavici di una Sicilia mitica e irredimibile. Invece se ne esce con un’affermazione piena di dolore. 
- Signora, c’è il mare. 
- Il mare. 
- Sì. Il mare, anziché portare la sabbia, si mangia la spiaggia. Quando io ero bambino, la spiaggia era lunga, lunga, lunga. Ora è la metà. E poi i bobcat non sono del Comune. Bisogna chiamare una ditta. 

In effetti, siamo sulla Riviera Jonica. Come prevedere l’azione erosiva del mare? Il mare, questa belva indomabile e infida contro cui nulla può l’uomo. Il mare è padrone, il mare è crudele. Io però sono testarda come un piemontese dell’Ottocento e razionale come un esponente dell’Illuminismo lombardo. Provo ad andare di logica. 
- Mi scusi: questa è una località balneare; avete un anno di tempo per prepararvi alla stagione turistica: non potevate rendere l’accesso agibile? Non potevate fare in modo che i turisti trovassero non dico un lungomare elegante, ma almeno decoroso? 

L’accenno al decoro lo turba. Mi fissa in silenzio per un secondo; sembra sul punto di dirmi qualcosa, poi si arrende. 
- Signora, qui non c’è la mentalità, per queste cose. 

La mentalità. Ha detto proprio “mentalità”. 
- Non è questione di mentalità; è questione di dignità. E di efficienza. Ma non vi vergognate ad accogliere così i turisti? Pensate che vedano solo il mare e lo Stretto, che non vedano la ruggine e le tavole marce che voi chiamate passerelle? E se qualcuno si fa male?
- Certo – abbozza – qualche cosetta in effetti si potrebbe fare. Dove ha detto che scende lei al mare? 
- All’altezza di via Casazza. 
Prende nota su un post-it giallo. 
- Vedrò cosa si può fare. Forse gli operai, manualmente, possono spostare un po’ di sabbia sotto la scaletta.
Poi, temendo di essersi spinto troppo oltre, mi avverte: 
- Però non le prometto niente. 
- E io vorrei poterle dire che non mi aspetto niente. Invece non è così: io penso che dovreste fare qualcosa. 

Mi alzo per accomiatarmi. Lui tiene una penna con l’indice e il pollice di entrambe le mani e la misura con lo sguardo. 
- Però – dice sommessamente – il lungomare di Roccalumera non è poi così brutto. Che gli manca? Si potrebbe sistemare con poco. 
Parlando ha alzato lo sguardo: mite, speranzoso, fiducioso. So cosa vuole che io dica. 
- No, non è poi così brutto. Basterebbe veramente poco. Ma non c’è la mentalità. 

Me ne vado. Prima di uscire mi guardo attorno: stanze e piani di questo municipio sono percorsi da cinquanta-sessantenni che sanno perfettamente qual è il loro compito: non fare nulla, e vi si attengono con scrupolo. Questo è un luogo senza costrutto e senza scopo. Mentre scendo in spiaggia sulla scaletta arrugginita e faccio un saltello sul tavolaccio traballante, mi dico che il buon vecchio Tomasi non aveva capito proprio nulla. Il fatalismo non c’entra niente con i siciliani. Perché concepire il Fato presuppone la capacità di alzare la testa e vedere un domani, che si sa già scritto. 
Ma questo è un popolo che tiene la testa bassa e del domani se ne fotte.



post correlati



venerdì 19 giugno 2015

Il posto fisso

Da oggi sono un’insegnante davvero e per sempre: ho superato l’anno di prova, la Commissione dell’Istituto Comprensivo di ********* si è riunita, dopo aver ascoltato la mia relazione finale, e ha deliberato: parere favorevole alla conferma in ruolo della professoressa Ariane!
La Preside, che per un intero anno scolastico ha meticolosamente evitato di ascoltarmi - o, se proprio doveva, di guardarmi in faccia mentre le parlavo - ha finalmente mostrato il suo volto umano, complici i due bicchieri di prosecco Valdo che si è già calata durante il rinfresco offerto da noi neoassunti. 
Per questo mi ha rivolto la parola, senza però staccare gli occhi dalla fragolina di bosco del suo pasticcino. 
- Congratulazioni, professoressa. Ho visto che ha consegnato il registro in segreteria. È in condizioni pietose: strappato, pieno di orecchiette e di cancellature. 
Inghiotto intero il mio bigné. 
- Quale sarà la sua sede, l’anno prossimo, professoressa? 
- Il carcere circondariale del capoluogo di regione, sezione uomini. 
Il suo volto si distende. L’idea che io finisca in prigione, evidentemente, la rasserena. 
- Però, Preside, a malincuore dovrò rinunciare: chiederò l’assegnazione provvisoria qui vicino, perché ho troppe bambine e non posso trasferirmi quest’anno. Magari riesco a ritornare in questa scuola. 
Silenzio. La Preside sta metabolizzando la notizia. Mangiamo entrambe un altro pasticcino. 
- Quanti ne ha già presi? 
- Tre bigné al pistacchio, quattro cestini alla frutta e un cannolicchio alla ricotta, preside. Ho la fame nervosa da dopo esame. 
Sguardo di disapprovazione del capo di istituto. Sono troppo secca, per lei. Le insegnanti secche la infastidiscono, soprattutto se si strafogano di pasticcini al buffet. 
- Preside, ma è tutto? Prima di diventare una professoressa vera, non dovrei fare che so, un solenne giuramento, come i medici? 
- Perché mai? Mica deve salvare vite umane, lei. 
- Ma il nostro è un lavoro importante, abbiamo a che fare con persone! Forgiamo le loro teste, i loro caratteri. 
- Lei si sopravvaluta. Cosa insegna, italiano? Al massimo, se è brava, potrà fare in modo che tre alunni su venti imparino a usare il punto e virgola. 
- Ma non c’è qualche codice deontologico da firmare, un rotolo della legge, che so, qualcosa che sottolinei l’ufficialità dell’entrata in ruolo? 
- No. Se ci riesce, visto che è una terrona, eviti di approfittare della legge 104 per farsi trasferire dove vuole millantando genitori paraplegici e di procurarsi certificati falsi per starsene a casa a fare il cambio stagione. Eventuali atteggiamenti di nonnismo verso i supplenti, invece, saranno tollerati. 
- Ma ci deve pur essere un rito iniziatico, qualcosa che segni il passaggio dallo stato di precaria a quello di assunta a tempo indeterminato! 
- Tanto per lei non cambierà niente, a parte il fatto che verrà pagata durante i mesi estivi; ad agosto potrà dire: “sono in vacanza”, anziché “sono disoccupata”. 
- E non è poco, le assicuro. 
- No, infatti; lei diventerà un alibi per evasori fiscali. 
- Eh? 
- Sì, ce l’ha presente:“le dispiace se non le faccio lo scontrino, che poi i miei soldi li usano per pagare le ferie a quei fannulloni di insegnanti che mi hanno pure bocciato il figlio, quest’anno”? 
- … 
- Una statale garantita e improduttiva in più: cosa voleva, la stretta di mano del Presidente della Repubblica? 

Facciamo nondimeno cin cin con i bicchieri di carta. 
Il prosecco Valdo scorre a fiumi, gentilmente offerto da voi onesti contribuenti. 

sabato 16 maggio 2015

Ahi quanto a dir QUAL'ERA è cosa dura

Se sei una prof d’italiano, almeno una volta nella vita avrai pronunciato la frase “Perché chi scrive male pensa male!”, con tono stancamente apocalittico e un occhio fuori dall’orbita - in genere quello che è ti caduto sull’ennesimo errore di ortografia di un alunno.
Quel che avresti voluto veramente fare sarebbe stato schiaffeggiarlo, l'alunno, per completare la citazione morettiana e rendere più efficace la comunicazione didattica.



Purtroppo, più o meno dai tempi del plagosus maestro Orbilio, che prendeva a vergate il piccolo Quinto Orazio Flacco per fargli imparare a memoria i saturni di Livio Andronico, questi metodi didattici non sono più in voga. 
Adesso vanno per la maggiore il peer tutoring e il learning by doing che contemplano, sì, l’uso del linguaggio non verbale, ma solo se non lascia segni sull’allievo. 

(Piccola digressione: se Orbilio non avesse fatto ricorso alla verga, Orazio avrebbe comunque scritto le Satire? E se gli avesse fatto leggere e analizzare l’ostica Odusia in cooperative learning, le Epistole oraziane avrebbero avuto destinatari diversi? Il dubbio mi tormenta). 

Temo che picchiarli, comunque, non servirebbe a nulla, perché forse non pensano e, se pensano, pensano senza punteggiatura. 
E non solo i tuoi alunni. Anche gli adulti sbagliano e, se fino a qualche tempo fa lo facevano nell’intimità delle loro lettere vergate a mano, adesso violentano punteggiatura e ortografia sulla tua pagina Facebook. 
Tutti hanno il diritto di sbagliare, sembra, e lasciare che l’errore sia amplificato dal megafono virtuale, diventando democratico e trasversale. E condiviso. 

Arriverà, lo so, l’amico linguista permissivo dell’ultima ora a far notare che la lingua è il risultato di una convenzione sociale, il prodotto dell’atto linguistico di una comunità di parlanti che hanno il diritto di modificare gli usi e le regole, in base alla tendenza dominante. 
L’uso forma la regola. 
Ma se la comunità linguistica le regole le conoscesse e le rispettasse, il buon vecchio uso non dovrebbe necessariamente modificarsi secondo le abitudini dei peggiori. E sarebbe poi così brutto? 

Se la forma è sostanza e tu ci credi, non puoi arrenderti davanti alla generale refrattarietà alla correttezza. Bisogna fare qualcosa. 
La faccio: 

Piccolo promemoria per frequentatori attivi di social network 

1) Il Po è un fiume. 
2) Un po’ è giusto. 
3) Un è cacca. Letame. Escremento. Preferirei che mi defecaste direttamente sul monitor, piuttosto che costringermi a leggere i vostri commenti pieni di pò. 
Pòpò, appunto. 
4) Qual’è, qual’era. Orrore, raccapriccio, scoramento. Qual è, qual era. Senza apostrofo. Non vi viene naturale? L’apostrofo vi scappa? Me ne frego. Trattenetevi: è buona creanza. 
5) L’aldilà (tutto attaccato) ci aspetta tutti, professori e alunni, morettiani e anti-morettiani; e questo al di là (tutto staccato) del fatto che sappiate come si scrive. 
6) Fa non si accenta. Fu nemmeno. , sì (e anche il – particella affermativa - per distinguerlo dal si riflessivo). Fa’, con l’apostrofo, sta per “fai”, imperativo. (Es. “Muttley, fa’ qualcosa!”). C’è anche un motivo per tutto questo, ma non importa. Atto di fede. Credere e non farsi domande. 
7) Stò, stà, , manco a dirlo, ve li siete inventati voi: in natura, non esistono. 
8) Voi non potete mettere la virgola dopo il soggetto, prima del verbo o prima di un complemento, se non ci sono incisi da isolare. 
Voi, non potete, mettere, la virgola. 
Chiaro, no? E non fatelo, allora! 
9) Dopo i verbi come pensare, ritenere, credere, sarebbe una prova di grande modestia far seguire il congiuntivo. Così, giusto per mettere in dubbio la validità universale della vostra opinione. Quello che pensate o ritenete voi dovrebbe conservare un mite valore soggettivo. Con un bel congiuntivo, “io penso che voi dobbiate saper usare correttamente la vostra lingua madre” suona meno dittatoriale. 
Penso che dobbiate. 

venerdì 17 aprile 2015

Cantami o Diva

Qualche anno fa, quando li interrogavi, non riuscivano a portare a termine il discorso: iniziavano spavaldi e sicuri con un nome e una data, illudendoti - ma solo per poco - che la Storia fosse ai loro piedi, oltre che nella loro testa. Poi la mente si smarriva, le parole si diradavano, cominciavano i sospiri e infine, con la bocca aperta, giungeva il silenzio. 
- E poi? – incalzavo io, fiduciosa. 
Silenzio. E sguardo sgranato, labbra serrate, incredulità. 
- Ma io la sapevo, prof. 
- E allora dilla. 
Silenzio. 
Adesso, è peggio. Non sanno nemmeno cominciare. Dicono: “allora” o “quindi”, saltellano su un piede, provano a mettere le mani da qualche parte - in genere in tasca, a volte nel naso. E poi stanno zitti.

Eccoli qui, i miei alunni di oggi: inesorabilmente diretti verso l’afasia. 
Eppure io la storia gliel’ho raccontata, come se fossero dei bimbi da mettere a nanna. Rossa in viso e con il fiato corto, ho domato per loro parole, nomi e date; con gli scarabocchi alla lavagna, che hanno copiato diligentemente, ho cercato di chiarire sequenze, conseguenze, legami logici, inferenze. Ho puntellato la mia lezione di gessetti che si spezzano mentre scrivo con veemenza, di cancellini che mi saltano puntuali dalle mani entusiaste, di baffi di gesso che mi restano sulle guance dopo che mi sono grattata. Di perentori: “E’ chiaro?”, “Avete capito”, “Ci siamo, fin qui”? E i loro occhi attenti, i commenti sussurrati; c’è chi sta ritagliando un foglio di carta, chi gioca con la calcolatrice. Ma mi ascoltano, hanno capito. Non è poi così difficile, la Storia. 

Perché allora, quando li interrogo, loro quella stessa Storia non me la sanno raccontare? Perché non sono in grado di iniziare e finire un discorso, con un capo e una coda e pure un ventre da riempire di idee, intuizioni, collegamenti? Perché i miei alunni non parlano? 
- Perché i vostri figli non parlano? – ho iniziato a chiedere ai genitori, durante i colloqui. 
- Perché non studiano.
- Sono timidi. 
- Perché si mandano messaggi su Whatsapp; non si raccontano le cose, si mostrano i messaggi. 
“Guarda cosa gli ho scritto. Guarda cosa mi ha risposto”. Si parlano con i selfie. 

È così semplice? Non parlano perché non ne hanno più bisogno? Perché guardano immagini, mostrano immagini, scrivono frasi brevi? Perché non devono sforzarsi di rendere esplicito il pensiero con le parole - tanto basta aggiungere una faccina triste o allegra, come una cornicetta che diventa più importante del centro della tela? Non parlano e basta, o non parlano con me, con noi adulti? 

Mia figlia, quarta elementare, mi chiede di aiutarla con la Storia. I Fenici. 
- Spiegami cosa c’è scritto nel libro. 
- No, mamma. Mi devi fare delle domande. 
- Perché non mi racconti tu di questi Fenici? 
- Ma la maestra mi fa delle domande e io devo sapere rispondere. Fammi delle domande. 

Ecco cos’è. 
È cominciata così: non si chiede più loro di raccontare. Rispondono a delle domande. Mettono crocette negli spazi appositi, scelgono tra vero o falso, collegano i termini con le frecce. Aggiungono parole mancanti scegliendole da una lista. Fill the blank, come negli esercizi di inglese: riempi lo spazio vuoto. Piccoli spazi vuoti da riempire con piccole parole. Non troppo grandi gli spazi, altrimenti si perdono. 
I miei alunni non costruiscono, non narrano, non fanno e non disfano. Riempiono uno spazio vuoto, diligenti, precisi, micidiali. 
Una volta riempito lo spazio, non ne resta per i discorsi, i ragionamenti, i racconti. 
Imparano lo stesso? Sembra di sì. Le verifiche strutturate sono la loro delizia. I più bravi funzionano come dei calcolatori elettronici, non sbagliano nulla. Io, al loro posto, qualche errore l’avrei commesso. 

Heinz von Foerster ha fatto notare come l’interazione scolastica si basi sulle cosiddette "domande illegittime", poiché di esse, colui che interroga, conosce già la risposta. Le vere domande, quelle "legittime", poste per ottenere una risposta non nota in partenza, sono bandite da questo sistema. Quanto più l’alunno sa fornire risposte scontate (giuste), tanto più sarà prevedibile e valutabile. Tanto più sarà banale. 

Raccontare, invece, significa avere una voce e delle idee. Narrare implica assumersi una responsabilità, decidere, scegliere cosa dire e come. Significa, anche, crescere: non sono più un bambino, perché la Storia, ormai, me la racconto da me. 

Adesso, quindi, solo domande e risposte. E l’afasia. Poi il silenzio, seguito,  a volte, dalle lacrime dei più sensibili davanti alla madre di tutte le ingiustizie: “Ma io ho studiato”, singhiozzano sconsolati, al termine di una scena muta. 


Nei corsi di formazione, spiegano che sarebbe opportuno dismettere il vecchio e intimidatorio termine “interrogazione” - che ricorda troppo “interrogatorio” - per sostituirlo con un più morbido “intervista”. 

- Rossi, interrogato! 
No, così lo turbi. 
- Rossi, intervistato! 

In tal modo, secondo le nuovissime indicazioni psico-pedagogiche, Rossi è libero di riempire gli spazi vuoti con più agio e serenità. Interrogazione o intervista, però, quando tocca a lui raccontare, ti risponde con un silenzio perfetto. 
Quando va bene. 

- Rossi, chi era il re Sole? 
- Luigi XIV. Detto il re Sole, perché credeva nel Dio Sole. 

giovedì 19 marzo 2015

Prìncipi e topi

Prima della pubertà, l’educazione sentimentale di una fanciulla è in genere affidata alle fiabe e ai film d’animazione. Cenerentola mi sembrava un contributo importante, quindi ho portato le bambine al cinema. Sono piccole, possono ancora godersi una fiaba senza farsi troppe domande: danzano con gli occhi, sospirano e sognano di fare le giravolte nell’abito azzurro a corolla; o pensano che il modo migliore di apparire belle sia cospargersi di strass e andare in giro parate come un lampadario del Settecento. 



Con queste premesse, si cresce credendo nel lieto fine, nell’amore eterno, nel bene che trionfa. 
"Ricordati di essere gentile e di avere coraggio" dice la mamma morente a Cenerentola. La fanciulla continua a ripeterselo, più o meno ogni tre fotogrammi, per essere sicura che nulla le sfugga del complesso lascito materno: "essere gentili e avere coraggio; essere gentili e avere coraggio". 
E, con tutti i topi che circolano nel film, di coraggio, se sei una femmina, ce ne vuole parecchio. 
Il messaggio principale è, comunque, che dobbiamo sposare il più figo della festa. E fare tiè! con la manina ad Anastasia e Genoveffa. È l'effetto liberatorio del trionfo dopo la fatica, della rivalsa contro soperchierie e umiliazioni. Cenerentola, Pretty woman o Rocky Balboa: in fondo, è sempre la stessa storia. Puntuale, un sospiro di sollievo si leva dai piccoli petti all’arrivo della cavalleria pesante (la fata madrina armata di bacchetta magica), seguito da un ooh di meraviglia quando compare l’abito azzurro rotante e gli Swarovski tra i boccoli biondi. Fotogrammi colorati da inghiottire insieme a manciate di popcorn, e niente che vada di traverso. Come nelle migliori fiabe.

Non è ancora arrivato il momento di rovinare la festa a queste bambine innocenti, ma qui voglio stilare un piccolo promemoria di precisazioni puntigliose che, a tempo debito, potranno risultare utili. Perché, prima o poi, l’innocenza cresce. 

1. Queste fiabe ti fanno credere che la fase della sguattera sarà solo una brutta parentesi nella tua gioventù. Fare il bucato, cucinare, rammendare, spolverare, spazzare, lucidare: non durerà, ti ripeti; un bel giorno arriverà un principe con un cavallo e ti porterà via dalla cenere del camino. Errore. Il principe, infatti, pretenderà che tu gli stiri le camicie come faceva la sua mamma. Ma tu non sei la sua mamma e stiri veramente di merda. Almeno la matrigna non faceva confronti. 

2. Il principe di Cenerentola ha un padre comprensivo e dotato di solido patrimonio. Non ha una madre. La maggior parte dei principi una mamma ce l’ha, invece. E sa cucinare meglio di te. 

3. Non puoi veramente credere che quella scarpetta di cristallo tacco dodici sia comoda. Non lo è, credimi. Ricordatelo, quando a fine serata scenderai a quattro zampe lungo lo scalone scenografico, col mascara colato che sta per trasformarti in un panda - anche se con un vestito da urlo - e non vedrai l’ora che il dodicesimo rintocco ponga fine alle tue sofferenze. Scarpette di cristallo luccicante del cazzo. 




4. La triste verità è che non basta un bibidibobidibù perché i tuoi stracci Zara Basic si trasformino magicamente in abiti d’alta moda. La fata madrina che ti regala il vestito della tua vita e poi scompare in un ultimo frullo di stelline colorate non esiste. La carta di credito, invece, prevede l’addebito. Ed è quanto di più vicino a una fata madrina tu possa sperare di ottenere nella vita. (In Pretty woman, tra l’altro, la carta di credito veniva concessa solo dopo adeguata prestazione sessuale. Farsi due conti). 

5. Bambine, bambine, non temete: se anche avete i piedoni da hobbit (e i peli sull’alluce), non è detto che non troverete mai nessuno disposto ad amarvi. Recenti statistiche indicano che i principi feticisti sono piuttosto comuni; ma non tutti si concentrano sul piede. O sulla scarpetta taglia-talloni. Fortunatamente per voi – e per tutte noi - esistono anche i principi piglia-tutto. 

6. Non corrisponde a realtà il principio secondo il quale dovete puntare tutto su bontà, gentilezza e outfit sbrilluccicanti; anche lo studio è importante. Mi raccomando, studiate. Trovatevi un buon lavoro e rendetevi indipendenti. Questo vi consentirà, alla fine della festa danzante o dell’apericena, di chiamare un taxi all’ora che preferite, invece di dovervi catapultare sull’ultima zucca utile. 

7. In natura, non esistono topi carini e simpatici. Se sei una che accarezza i topi canticchiando, c’è qualcosa che non va in te. Forse è colpa dei film che ti hanno fatto vedere da piccola.