venerdì 2 dicembre 2016

La via di Schenèr





Durante l'autunno, agli abitanti della ridente e piovosa cittadina di Feltre è capitato di leggere o sfogliare un bel libro, scritto da un giovane storico di queste parti: La via di Schenèr, di Matteo Melchiorre, edito da Marsilio. 
La gente del luogo deve essere stata colta da orgoglio e sorpresa: e per la qualità del testo e per l'argomento trattato. 
Racconta Melchiorre che, tra i monti qua dietro, si apre una via lunga secoli e decine di chilometri, la via di Schenèr appunto, che ha attraversato confini e collegato popoli e domini nemici e che è stata snodo fondamentale degli scambi commerciali tra todeschi e veneziani. Questa via peculiare ha avvicinato il Nord al Sud d'Europa e separato invece piccoli paesi limitrofi, segnandone  a un tempo la contiguità e l'alterità.

Giunta già adulta ai piedi delle Dolomiti, ho fatto anch’io le mie belle passeggiate in montagna, ammirando creste puntute e pendii villosi di boschi, con l’occhio sospettoso dell’isolana che si lasciava nondimeno ammaliare dalla potenza naturale del paesaggio alpino. Ma soffro di vertigini e ho il baricentro alto, per cui lo sci no, non m’ha preso. E i sentieri che accarezzano i precipizi, le pareti lisce, gli strapiombi da cuore in gola, li ho affrontati poche volte e sempre con i capogiri in agguato. 
Eppure, per quanto io sia abituata a considerare domestici ben altri tipi di paesaggio, dentro La via di Schenèr ho percepito la familiarità di un orizzonte che avevo sempre ritenuto alieno. 
Leggere dell’aspra via di Schenèr - questa vertiginosa cerniera tra Impero asburgico e terraferma veneziana, che ha inghiottito nei secoli uomini e bestie - toglie il fiato come certe vedute improvvise che ti si aprono davanti quando sali in montagna. 
Nei lunghi anni che ho trascorso in questi luoghi, mi sono spesso sentita al confino. E non era confino ma confine, questo che abitavo. Grazie  alle pagine di un libro, l'ho capito. 

La via di Schenèr è un ibrido di pregio e fascino: un testo liminare come l’antica strada commerciale di cui riscopre la storia, sospeso com’è tra scritto letterario e indagine documentaria. 
Non sono del mestiere e posso solo intuire la qualità della ricerca storica che ne costituisce il fondamento. Eppure, non v'è dubbio alcuno che questo racconto dei luoghi e delle vie tra i luoghi - e delle vite tra i luoghi – abbia un purissimo valore letterario. 
Perché la storia può essere raccontata in tanti modi ma solo alcuni di questi diventano letteratura. 
Ciò avviene quando le parole scelte delineano una fisionomia stilistica precisa e riconoscibile, diventando lingua d'autore. 
Melchiorre descrive, narra e ragiona con un lessico la cui nitidezza e precisione ricordano certi mattini invernali, quando l’aria è così limpida che sembra ingrandire i particolari, tanto si stagliano netti. 
Quando sai usare il termine esatto, non per sfoggio sinonimico ma per devozione al dettaglio e, al contempo, la tua lingua non solo definisce e convoglia con nitore, ma indovina e coglie anche le sfumature e i passaggi fuligginosi, allora, secondo me, stai facendo letteratura, non solo storia. 
D’altronde, Melchiorre non è uno che parla coi morti (ché a quello siam buoni tutti); al contrario: sono i morti che parlano con lui e lo vengono a cercare nelle vie notturne e tra i faldoni d’archivio, facendo capolino da foto sbiadite di ruderi e panoramici quadri antichi. A quei morti Melchiorre presta ascolto atterrito e forse nostalgico. 
E, oltre alla nostalgia, c'è anche pietà stupita per le fatiche umane che durano secoli e che nel giro di pochi anni svaniscono su pochi tornanti asfaltati; e calmo entusiasmo per l’epica dell’uomo e dell’asino dalle some inaudite, che macinano chilometri in salita tra vie sassose e scabre. 
Uno storico sa prestare orecchio alle voci che giungono dagli schedari d’archivio. Le sa andare a cercare, sa interrogare le carte, sa farle parlare. Ma è solo il vero narratore che riesce a dare loro voce. 
Ascolto e parola, con mitezza e potenza. 

Non lo conosco di persona, Matteo Melchiorre, ma deve sicuramente possedere la pazienza e il rispetto, la forza tentennante e la delicatezza fiduciosa che si ritrovano nelle sue pagine. E un'autoironia elegantissima.   

So che è un viaggiatore nel tempo dagli scarponi grossi e la penna fine; uno scalatore che soffre di vertigini, uno storico e un vero narratore. 

La Via di Schenèr va letto, e presto.

sabato 26 novembre 2016

Madri salde



- Mamma, devo dirti una cosa.

Lo sguardo basso, un sorrisino imbarazzato e storto che mi fa rizzare i peli sugli avambracci.
No, non sono pronta, urla la mamma in esogestazione permanente che alberga dentro di me.

- Dimmi, figlia mia.

Sorrido solo con la bocca. Ha undici anni. Il suo corpo “sta scaldando i motori” (metafora usata dal pediatra durante l’ultimo bilancio di salute).

- Mamma, non so come dirtelo. Ma io non credo più a Babbo Natale.

Per un lungo secondo resto sospesa tra la voglia di mettermi a cantare per il sollievo e il bisogno di abbracciarmi da sola e dondolare il busto lanciando lugubri gemiti. Invece la fisso a bocca aperta.

- Da almeno un anno ormai - e c'è pietà per me, nel suo sguardo.

La mia bambina. Sola, per un anno, con la sua scoperta da fine del mondo dell’infanzia.

- E non credo più nemmeno alla formichina dei dentini.

È proprio finita. La abbraccio facendo finta di piangere disperata e lei ride. La costringo a promettere che non lo dirà alle due più piccole, finché non lo scopriranno da sole anche loro.

Ha iniziato il suo cammino lungo il sentiero che si biforca da me e d’ora in poi sarà una lunga sequela di scoperte, mie e sue.
Sono salda, però; sento di potercela fare ad accompagnarla lungo tutto il percorso. 

- Mamma, c'è un'altra cosa.
- Dimmi, bambina mia.
- Un mio compagno mi ha detto che sono sexy. Che vuol dire “sexy”?

Le ho risposto: chiedilo a papà.



giovedì 24 novembre 2016

Il quinto stato

“Gli uomini sono degli ebeti, si sa. Ma i veri danni, ricordatelo, li facciamo noi; perché noi donne siamo stronze”. 
Così mi ha detto un’amica che ho incontrato stamani al supermercato; non la incrociavo da un paio d’anni e in un quarto d’ora, davanti al bancone dei salumi, ci siamo scambiate il resoconto sintetico delle nostre rispettive rivoluzioni esistenziali.
La vita ferve, in provincia. 

Noi donne siamo stronze, sì. Lo siamo coi maschi, che portiamo a spasso menandoli per il guinzaglio inguinale. Lo siamo con le altre donne, ancora di più, perché questa è una giungla e sopravvive solo quella che non è disposta a soccombere. Quella che il guinzaglio non è disposta a cederlo troppo facilmente; quella che con più protervia riesce a strapparlo dalle mani della rivale, forte del diritto dell’amore, della giovinezza, della libertà, della bellezza. 
La solidarietà femminile è il principio più disatteso in natura, e non c’è niente da fare.
Essere un corpo sodale e compatto era forse possibile ai tempi del matriarcato, ma sono millenni ormai che le amazzoni non si schierano in battaglia. A quel tempo eravamo sorelle, ma l’avvento del patriarcato ci ha rese mogli. Credo. 

Gli uomini fanno massa compatta nella ripetitività dei loro schemi comportamentali; le donne, invece, sono un fronte sminuzzato e diviso; peggio: le donne sono una somma di potentissimi frantumi e ognuna di esse resta sola di fronte alle responsabilità e ai colpi del destino, a una vita coi figli e a una vita senza figli. 
Siamo frammenti, non squadra. Abituate a essere parcellizzate dall’occhio dell’altro, percepite per sineddoche, una parte per il tutto e il tutto intero impossibile da far accettare. Un paio di tette, un bel culo, un bel visino. Una mano santa per rimestare il ragù. Un utero. 
Per questo, io credo, abbiamo sviluppato nei secoli una maggiore disposizione alla famosa resilienza. Che sia un cesto di panni sporchi o una macchia di rossetto sulla sua camicia, noi affrontiamo tutto da sole e da sole soccombiamo o trionfiamo. Con il sostegno delle nostre amiche più strette, è vero. Ma sole anch'esse.  
C’è una mesta bellezza in questa forza solitaria. Mesta perché le storie di noi donne, quelle che ci raccontiamo al telefono o al supermercato o davanti a un aperitivo, sono spesso storie lancinanti e dagli esiti infelici.
Siamo in balia di questi maschi che è così facile dirigere a colpi di feromoni, e così impossibile contenere quando decidono di farci del male. 
Siamo in balia della nostra forza, atavica o individuale; in balia della nostra mancanza di consapevolezza, della nostra mancanza di solidarietà di genere. 
Scopriamo nostro malgrado, nei momenti di difficoltà, di potercela sempre fare. Che il nostro collo sottile non è fatto per spezzarsi da solo. Scopriamo che, nonostante tutto, noi restiamo in piedi. Possono menomarci, sfregiarci, possono toglierci la pelle di dosso ma non ci atterrano, non ci sconfiggono. Possono toglierci la vita e basta. 
Se, invece, ci lasciano semimorte e ammaccate, noi, ogni volta, ci rialziamo e andiamo avanti, tra le quattro mura di casa, in tribunale o in televisione. 
Quelle che soccombono sono state travolte da una violenza naturalmente sovrastante, quindi vigliacca. 
Ad armi pari, noi vinciamo. 
Perché le vere stronze non mollano.
E perché, dopotutto, non tutti gli uomini sono ebeti. 

venerdì 18 novembre 2016

The Danish way


La maggior parte delle mamme che conosco sono come me: mediamente insicure, devotamente empiriche. 
Viviamo dilaniate tra le poche e imponderabili certezze dell’istinto materno e i modelli ideali: l’istinto ci dice sempre cosa fare, ma non abbiamo la forza di carattere necessaria per ascoltarlo; e i modelli ideali sono, appunto, ideali. 
Le mamme indecise arrancano dietro i consigli spassionati delle suocere e i fulgidi esempi delle amiche che ce l’hanno fatta: quelle i cui figli dormono nel proprio letto per tutta la notte dall’età di due mesi, mentre tua figlia, a quattro anni suonati, di notte ce l’hai ancora attaccata al fianco come una cozza verghiana. 
Rispetto a dieci anni fa, quando, se proprio volevi farti del male, andavi a leggerti i blog delle mamme che ce l’hanno fatta, le cose sono peggiorate: adesso sei costretta a confrontare la tua semi-avvilente realtà quotidiana con timeline di Fb infestate da documentati momenti di felicità e realizzazione familiare: le foto postate dalle temibili mamme del profilo accanto. 

In genere, le madri insicure si rifugiano nella manualistica, al cui fascino perverso non ho mai saputo resistere nemmeno io. Ho letto di tutto, applicato qualunque metodo, compreso Fate la nanna di quel sadico para-nazi del dottor Estivill. Il mio manuale preferito era quello che sosteneva che non esistono bambini capricciosi; solo bambini creativi. 
Creativi. 
È stato anche il più inutile. 

Mi sono dunque precipitata a leggere il Metodo danese per crescere bambini felici ed essere genitori sereni non appena ho avuto notizia della sua esistenza in commercio. 
I danesi, a quanto pare, sono il popolo più felice della terra e il motivo risiede nel fatto che sanno allevare felicemente i loro bambini. Vi ricordo che sono anche quelli che hanno inventato i Lego, quindi c’è da fidarsi, perché conosco un sacco di gente che si sente completa e appagata mentre gioca coi mattoncini e costruisce realtà parallele autarchiche. 

Si tratta di un manuale, quindi è di rapida lettura e facile consultazione: i concetti fondamentali sono distribuiti nell’acronimo PARENT, che significa “genitore” (ma non è geniale?) e sta per 

Play (gioco) 
Authenticity (autenticità) 
Reframing (ristrutturazione) 
Empathy (Empatia) 
No ultimatums (Nessun ultimatum) 
Togetherness (intimità e stare insieme) 

a cui corrispondono altrettanti capitoli; e il contenuto di ognuno di questi capitoli è maledettamente convincente e io VOGLIO essere serena e le mie bambine DEVONO essere felici; per cui le due autrici, una mamma americana e una psicologa danese, non possono non aver scritto il manuale che stavo cercando da un decennio, ormai. 

Dunque, ecco come si diventa danesi e felici: 

1) PLAY
Il gioco deve essere libero. I bambini devono essere incoraggiati a giocare da soli e i genitori devono intervenire il meno possibile. Tramite le situazioni di gioco, imparano a gestire l’ansia, diventano resilienti, sperimentano limiti e possibilità. I bambini non vanno trattenuti e non vanno spinti. Quello che invece di solito facciamo è proteggerli a oltranza da ogni stress, salvo cercare poi di costruire dall’esterno la loro sicurezza e autostima, elogiandoli per ogni cacatina di mosca che depositano su un foglio (ma è un disegno bellissimoooo! L’hai fatto tuuu? Ma che bravaaaa!). 
Qui parte l’elenco numerato di cose da fare (1. Spegni la tv. 2. Predisponi un ambiente stimolante e poi vattene. 3. Portali preferibilmente all’aperto, in un luogo sicuro e poi vattene. 4. Falli giocare con bimbi di età diverse (e poi vattene). Etc. 

(Ma è meraviglioso! Miei danesi adorati! Giusto! Sono d’accordo! Devono giocare da soli! Io mi annoio da morire a giocare con le mie bambine. Ecco. L’ho detto. Lapidatemi. Ma non potete! Perché non sono una mamma cialtrona e asociale: sono una mamma danese! Ora che ci penso, le persone che mi hanno cresciuta non giocavano mai con me. E io ricordo lunghissimi pomeriggi densi di gioco, stipati di ore e ore di invenzioni e corse e psicodrammi. La noia, se c’era, faceva da riempitivo. Non so se è stata una palestra di vita: quello che è sicuro, è che io sono una che SA gestire l’ansia). 
(E ho avuto un’infanzia bellissima). 

2) AUTHENTICITY 
Intanto le fiabe. Indovinate di che nazionalità era Andersen? Esatto. E le sue fiabe le avete mai lette ai vostri figli o avete solo lasciato che guardassero quelle carinissime edulcorazioni americane della Disney? Ma lo sapete che fine fa la Sirenetta, nella fiaba originale? Ecco: le vere, antiche, tradizionali, AUTENTICHE fiabe finivano tutte malissimo. 
Dicono le autrici: “Quando si vive un momento difficile, per esempio, sorridere e dire che va tutto bene non è sempre la linea d’azione migliore. Illudere sé stessi è la forma peggiore di inganno ed è un messaggio pericoloso che trasmettiamo ai nostri bambini. Impareranno a fare la stessa cosa”. 
Comunicate serenamente alle vostre figlie che no, Ariel non sposa il principe. 
E questo si ricollega direttamente al “metodo danese della lode”: stracciarsi le vesti per le cacatine di mosca, come dicevamo prima, non si fa. Meglio focalizzarsi sul processo che sul risultato (“Interessante questo soggetto. Come ti è venuto in mente? Come hai realizzato questo fiore? Etc.”). 
I bambini che ricevono lodi sperticate si faranno l’idea (pericolosa) che basti un minimo sforzo per ottenere ottimi risultati; questo significa che, alla prima difficoltà, getteranno la spugna o andranno incontro a grandi frustrazioni, anziché rimboccarsi le maniche e trovare il modo di superare gli ostacoli. 
E siamo di nuovo al punto uno: se li proteggiamo troppo perché pensiamo che da soli non possano farcela, loro, appunto, non ce la faranno. Se la verità fa male, l’alternativa più efficace non è dire bugie. Soprattutto se le bugie le raccontiamo, prima di tutto, a noi stessi. 

3) REFRAMING 
Ristrutturazione o ottimismo realistico. Bisogna concentrarsi sugli aspetti positivi, senza auto-illudersi: “Gli ottimisti realistici non fanno altro che rimuovere mentalmente le informazioni negative non necessarie”. Dagli esempi che fanno le autrici, deduco che si tratti sostanzialmente del vecchio metodo Pollyanna. Vabbè. 
Con i bambini, comunque, la ristrutturazione funziona così: bisogna “spostare la loro attenzione da ciò che pensano di non saper fare a ciò che sanno fare”. Mai usare quello che le autrici chiamano il linguaggio sintetico (“E’ così disordinata”, “Non è molto brava nello sport”, “E’ troppo sensibile”): etichette. 
Le stesse che hanno appiccicato a noi e sulle quali abbiamo imbastito la nostra vita di adulti. “Riflettete: quali sono le cose che pensate di voi, e quante di queste derivano da ciò che vi veniva detto da bambini?”. 

(Ahi. Io me la sono fatta questa domanda. 
Lasciatemi sola coi miei demoni). 

Comunque. I danesi non dicono “Non piangere!” o “Sei cattiva!” o “Non si fa così!” o “Dovresti essere contento!”. I danesi fanno domande, cercano di far riflettere i bambini sul modo e sui motivi per cui sono o agiscono in un certo modo, non danno valutazioni prescrittive e basta. 
Separano il comportamento dal bambino. 

(‘Na parola. Purché, di ristrutturazione in ristrutturazione, non si arrivi al vecchio: “Non esistono bambini capricciosi. Solo bambini creativi”). 

4) EMPATHY
Empatia. Cervello sociale. Il potere delle parole. Il sistema scolastico danese e i programmi danesi che insegnano l’empatia. 
Sì, ma passiamo al punto successivo, che è quello che ci interessa di più. 

5) NO ULTIMATUM 
NO??? Niente minacce? Nessun ricatto? Neanche una garbata avvertenza verbale che state per scatenare l’inferno nelle loro vite se non la smettono di slacciarsi le cinture di sicurezza mentre siete in autostrada? 
Allora, io che sono una madre cialtrona ma illuminata, all’abbiccì ci arrivo. Sculacciate no. E nemmeno: sennò arriva il lupo cattivo. Forse mia madre avrà inserito qua e là un “altrimenti Gesù Bambino piange”, ma tanto le mie figlie non sono battezzate. 
Però i danesi “vedono i bambini buoni per natura” e quindi non hanno bisogno di ricorrere alla minaccia a vuoto. 
Io non sempre ce la faccio. Opto per la minaccia iperbolica e perciò irrealizzabile, così non impegna (“Se non la smetti di picchiare tua sorella sulla testa ti stacco quelle gambette storte che ti ritrovi e poi te le riattacco a contrario”). Di solito si fermano, mi guardano un po’ preoccupate e poi sorridono. E continuano a picchiare la sorella sulla testa. Ma con meno convinzione. 
I danesi non urlano. Io sì, a volte mi scappa, e dopo non mi sento mai meglio. 
I danesi sono fermi ma gentili. Io ci riesco solo se ho dormito dodici ore di fila e sono appena tornata dal parrucchiere. 
“Evitate il braccio di ferro”. 
“La calma genera calma”. 
“Smettete di preoccuparvi di quello che pensano gli altri”. 
E soprattutto: “È davvero importante che i loro vestiti o capelli siano sempre perfetti? (NO. Questa la sapevo) 
“È davvero importante che non indossino un giorno in più quella maglietta di Batman? È davvero importante che finiscano subito tutto quel che c’è nel piatto perché lo avete detto voi? […] Ne vale davvero la pena?”. 
Su, rispondete sinceramente: ne vale sempre, davvero, la pena? 

Meglio concentrarsi sugli “orientamenti di fondo”, sul minimo sindacale, sull’economia di sussistenza. 
Se si fissano su qualcosa, dicono le autrici, distraeteli, spostateli, fateli ridere, offrite un’alternativa (Io, di solito, a questo punto della storia me ne esco con un: “facciamo i pancake?” Con le mie figliole funziona)
Seguono utili consigli pratici per evitare gli ultimatum. 

6) TOGETHERNESS 
Pare che questi splendidi danesi amino riunire periodicamente la famiglia per vivere dei momenti conviviali in armonia e intimità. Pare che faccia bene stare insieme alle persone care, con l’unico scopo di stare bene insieme, resistendo alla tentazione di anteporre i propri problemi o stati d’animo alla buona riuscita del momento collettivo. Rendendosi utili; contribuendo alle incombenze di ordine pratico. Godendosi la condivisione di spazio e tempo comuni. Si cucina insieme, si apparecchia, si mangia, si parla, ci si ascolta. In Danimarca, tutto ciò è talmente importante e radicato, che c’è addirittura un termine specifico per definirlo: si dice “hygge”. 

Sì, cari danesi.

Devo purtroppo fare i conti con una realtà, la mia, che è in genere più distonica e dissonante del garbato contesto nordico in cui tali deliziosi principi vengono in genere applicati. 
Nelle estreme propaggini meridionali del Paese mediterraneo a cui appartengo, quando è ora di mettere in pratica gli ottimi precetti, dobbiamo scendere a patti con la tara atavica del fare male ciò che potrebbe essere fatto meglio. 
Resta che il metodo danese è sicuramente buono: condivisibile, ragionevole, intelligente. Io ho sempre avuto, senza saperlo, idee danesi sull’allevamento dei figli; mi ritrovo, mio malgrado, ad operare con attrezzi forgiati nel Mezzogiorno. 
Mia madre, per dire, se le propongo di fare l’hygge, capisce “frigge” e butta l’olio in padella. Dalle mie parti, infatti, è la frittura che tiene unite le persone durante le adunate conviviali. Ma si sa che il calore porta disordine ed entropia. Il nostro togetherness, come minimo, ti impuzza i vestiti: per questo, nei secoli, siamo diventati irrimediabilmente fatalisti.

Ciononostante, sono convinta che qualche dritta danese faremmo bene a seguirla anche alle nostre latitudini. 


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lunedì 7 novembre 2016

Varvara Nikanorovna

PRIMA AVVERTENZA: questo post contiene spoiler definitivi su tre grandi classici della letteratura mondiale (quelli che si sa come vanno a finire anche se non li hai mai letti): Madame Bovary, Anna Karenina e l’Eneide. Io vi dovevo avvisare che c’è lo spoiler. Fate voi. 
SECONDA AVVERTENZA: questo post non è un pezzo di critica letteraria, benché parli di letteratura. La letteratura è solo un pretesto per considerazioni di carattere più ampio e generico: un modo come un altro per dire stupidaggini dandosi un tono, insomma. Soprattutto non contiene giudizi di valore sulla qualità letteraria dei suddetti capolavori. Ci mancherebbe.

Ho sempre tifato per Anna Karenina; una donna sposata con l’emblema del grigiore e della mediocrità; indomita, quindi adultera. Solo un autore maschio, moralista, bacchettone e sadico poteva farla finire suicida, con le tenere carni bianche - che tanto avevano goduto tra le braccia del conte Vronskj – ridotte a brandelli da un treno in corsa e sparse tra le rotaie. 

D’altra parte, a Emma Bovary non è andata meglio: muore fra atroci tormenti dopo aver ingerito un veleno letale ma non istantaneo (rileggersi la lunga, interminabile scena della sua agonia. Dura parecchie ore e parecchie pagine). Figurarsi se il caro Gustave non gliela faceva pagare, a questa donnetta credulona e un po’ vanesia, per aver inseguito la felicità sbagliando strada. 
In questi romanzi, nemmeno i personaggi maschili fanno una gran bella figura ma, almeno, portano a casa la pelle. 

E vogliamo parlare della povera Didone, che si trafigge con la spada regalatale dal troiano fatale, mentre lui salpa verso il Destino? 

Mi chiedo se esiste un romanzo, scritto da un uomo, in cui il marito fedifrago venga punito con altrettanto accanimento narrativo. Mi pare di no. Forse bisogna essere dei sadici moralisti misogini per scrivere capolavori immortali con grandi figure femminili, rigorosamente moriture e sfigate. 

Oppure si può essere Jane Austen. 
Ecco, Jane Austen, le cui eroine non erano per niente sfortunate in amore e alle quali, alla fine, le cose girano pure benino (Darcy. Oh, Darcy). 

Solo che gli uomini, a differenza delle donne, non leggono Jane Austen. 
Le protagoniste dei classici più letti dagli uomini in genere ci lasciano le penne, dopo aver soddisfatto il regale augello del protagonista maschile di turno. 

Queste trame letterarie sembrano voler mandare un messaggio, a noi uomini e donne che leggiamo i classici. Ma quale? E questo messaggio classico ha qualcosa a che fare con i rapporti tra uomo e donna nell’età contemporanea? 
Mi interrogo. Un po’ mi incavolo, perché secondo me tutto ha a che fare con i rapporti tra uomo e donna etc etc. 

Quanti di voi conoscono un romanzo russo scritto da un uomo che si chiamava Nikolaj Leskov? 
Oh prode, acuto, profondissimo Leskov, che hai raccontato con lieve potenza la storia della indimenticabile principessa Varvara Nikanorovna! Caro Leskov, scoperta tardiva, non smetterò mai di ringraziarti per aver creato una figura femminile sublime, forte, che non si piega, anche se deve accettare di veder sparire un mondo, il suo, nel quale si incarna la vera anima russa, lo spirito della tradizione e della rettitudine.
Pensate un po’: una donna che rimane vedova di un marito amato, che rifiuta di risposarsi, che governa e amministra meglio di un uomo i beni della grande famiglia dei Protozanov, che non cede alle lusinghe di un furbo pretendente, che cresce da sola tre figli e si circonda di figure improbabili come il meraviglioso Don Chisciotte Rogožin, impresentabile ma “con un cuore e una coscienza” e di fedeli servitori, devoti e leali. 

Fa bene, ogni tanto, leggere la storia di una donna che non perisce dopo aver compiuto scelte sbagliate in amore; che non paga con la propria vita la colpa di aver avuto a che fare con un mentecatto. 
Una donna in grado di discernere e di giudicare l’indole di chi ha di fronte e comportarsi di conseguenza; dotata di un alto senso della giustizia che le fa prendere sempre la decisione più equa, quasi mai la più facile. 
Dà speranza. 

Riporto qui un passo paradigmatico: in senso stretto, perché illustra a dovere la tempra della protagonista e in senso lato perché, a voler prendere ad esempio il suo modo di esercitare la difficile arte del regolarsi tra dare e avere, si potrebbero evitare un sacco di errori. 

 “Non aveva debiti con nessuno, e ben pochi potevano dire di non averne con lei. […] Chiunque, nobile o mercante, in caso di necessità poteva rivolgersi a lei e chiederle dei prestiti. Il grado di solvibilità del debitore lo stabiliva lei stessa, a seconda dell’opinione che si faceva di lui […]. I rifiuti erano rari; ma a colui che, avendo ottenuto dei soldi, non li restituiva a tempo debito (né veniva a chiedere una dilazione), la principessa mandava a dire: «Che non si preoccupi; su di lui ho messo una croce»”. 

E non gli concedeva mai una seconda possibilità, perché, semplicemente, non se la meritava.

Ragazze, impariamo da Varvara Nikaronovna a mettere una croce sopra qualcuno, quando quel qualcuno si dimostra inaffidabile.
È l'unica cosa sensata da fare.  

(Nikolaj Leskov, Una famiglia decaduta, Fazi Editore.)

martedì 25 ottobre 2016

Mentre noi corravam la morta Goro


Ogni volta che racconto ai miei studenti le nefandezze di cui si è macchiata l’umanità nel corso della Storia, un dubbio inespresso mi serpeggia dentro e non manco mai di chiedermi: se fossi vissuta a quell’epoca, io cosa avrei fatto? Sarei stata in grado di scegliere tra Bene e Male? Mi sarei trovata dalla parte giusta o sbagliata? 
Perché a posteriori è facile capire chi sono i buoni e i cattivi. Ma io avrei trovato la forza di essere antifascista con Mussolini al potere? O avrei scelto di tacere insieme alla maggioranza silenziosa? Sarei stata in grado di nascondere in cantina una famiglia ebrea o non mi sarei piuttosto tenuta lontana dai guai, lasciando che fossero gli altri a fare il male e il bene, senza intervenire? 
E il dubbio va oltre; non riguarda solo l’azione, coinvolge il pensiero. Sarei stata in grado di non lasciarmi abbindolare dalle ideologie? La paura del diverso, l’illusione della superiorità della razza avrebbero potuto condizionare i miei principi e le mie scelte?
Non potrò mai saperlo. 
L’unica cosa che so, e che mi dà una poderosa sensazione di sollievo, è che io, oggi, agli abitanti di Goro andrei a sputare in faccia con tutto il disprezzo che bisogna riservare a chi sta dalla parte sbagliata della Storia. Se si organizzano dei pullman per andare a fare le contro-barricate, fatemelo sapere che vengo anch’io. Almeno nel mio tempo, nella mia Storia, io dubbi non ne ho su chi sono i buoni e i cattivi, dove sta la ragione e dove il torto. 
Cani ringhiosi con la coda tra le gambe. Fanno le barricate in paese contro donne e bambini, gli eroi, e poi se ne tornano a casa a mangiare la salama da sugo e si sentono al sicuro, brava gente con la bava alla bocca, gente morta dentro, col fango che scorre al posto del sangue nelle vene e un banco di nebbia come unico orizzonte. Che la Storia vi giudichi, e il vostro Paese vi rinneghi. Che i vostri nati torcano il viso da voi, vili compatrioti con i quali mi vergogno di condividere lingua e suolo. 
Non è certo un merito sentirsi migliore di gente come questa. È che basta così poco per esserlo. 

martedì 18 ottobre 2016

Corpo a corpo



Come funzionano i corpi delle mamme?
Per contatto e passaggio di energia.
“Mamma, mi metto vicino a te, così ti passa la rabbia”, mi dice, sicura di sé, la piccoletta quattrenne, quando ho un diavolo per capello bianco. Si accuccia al mio fianco, sta due minuti ferma e concentrata e poi mi scruta, per vedere se il rimedio ha fatto effetto. Poi mi chiede: “Adesso ti è passata la rabbia?”. E se ne va a picchiare la sorella o a farsi pettinare i capelli dal gatto.

La seconda, invece, quella di quasi otto anni, l’algida bionda dallo sguardo di ferro e ghiaccio, in genere se ne sta alla larga da me tutto il giorno, perché è bella e sa cavarsela da sola (ho concepito quest’equazione spericolata tra bellezza e autonomia: la vita, probabilmente, mi smentirà; ma più avanti). La sera, però, aspetta che io sia sotto le coperte e, col pigiama a rovescio, viene a stendersi accanto a me e si fa coccolare; con gli occhi chiusi, il broncio voluttuoso, sospira e mi dice: “Ahhh, è così bello abbracciarti!”.

E tutte e tre mi toccano, mi lisciano, si acciambellano su di me, mi scrutano, mi infilano le mani sotto il reggiseno, mi danno i baci umidi, mi leccano il collo; si lasciano guarire con l’imposizione delle mani, un mio bacio fa passare la bua come il tocco dei re taumaturghi la scrofola; soffio su cicatrici e le faccio scomparire, tocco fronti bollenti e traduco la febbre in gradi centigradi, meglio di un termometro elettronico; con la mia saliva riesco a cancellare lunghe scie  di pennarello indelebile su guance e cosciotti; un giro di dita e il moccio scompare, le caccole degli occhi vengono grattate via, e "Mamma mi pulisci il culetto?" (l'uso corretto della carta igienica viene appreso, pare, solo dopo quello del telecomando di Sky).

Il mio corpo di madre si è fatto barca e navicella spaziale, pulmino di scuola e taxi a chiamata; si è aperto per fare spazio a questi tre polloni che mi sono spuntati; si è gonfiato, slabbrato e lacerato e poi si è afflosciato richiudendosi come il tendone di un circo quando lo spettacolo è finito. Le ha nutrite di cellule e plasma e poi si è messo a secernere latte. Sono stata munta, sprimacciata, sfogliata come un libro, calpestata a dovere e pure presa a testate (a volte per sbaglio). Sono stata il loro materasso ad acqua, il loro cavalluccio a dondolo, il filo della ragnatela a cui si dondolava un elefante, due elefanti, tanti elefanti e adesso ti prego, dormi!
Il mio corpo di madre è stato fatto a brani e i pezzi sparsi sulle loro fisionomie: le labbra a una, il dito mignolo del piede a un’altra, i neuroni alla terza. Hanno scelto solo qualche scampolo per formare i lineamenti: il resto, per compensare lo scialo e lo scempio che hanno fatto del mio corpo, lo hanno preso dal padre.

Tutte e tre, quando hanno avuto freddo, si sono strette a me e mi hanno chiesto, con la meraviglia e la collera che i misteri suscitano in ognuno di noi: “Perché le mamme sono calde?”.
Io, bimbe mie, non lo so perché le mamme sono calde. Perché l’amore brucia? Perché le mamme sono stufe, a volte, ma nessuno verrà a dare loro il cambio, neanche quando hanno finito la legna?
Certo, si può amare col cuore e con la mente, ma per crescere dei figli ci vuole un corpo caldo e il motto di Daenerys Madre dei Draghi sulle labbra: se mi guardo indietro, sono perduta.
Non basta l'anagrafe, non basta un utero. Bisogna scaldarli giorno dopo giorno. Così funzionano le mamme. Calore e contatto.

mercoledì 5 ottobre 2016

Ricordi di stagione




Vado in giro dicendo che l’estate è la mia stagione preferita, perché è quella in cui la mia pelle diventa liscia e si colora di salute; la serotonina pompa nelle vene, si possono scoprire le spalle e le cosce e andare in Vespa e mangiare granite e soprattutto non bisogna mettere le calze. Estate per sempre, sarebbe il mio sogno segreto. 
Eppure, la stagione delle intermittenze del cuore e della memoria involontaria è l’autunno; in particolare, il mese d’ottobre: ci sono nata e, ogni anno, ad ottobre sono cresciuta. Ma il dato anagrafico è solo un caso: questo è anche il mese in cui le radici ormai sepolte della mia famiglia hanno fatto i nodi più robusti, a cui torno ogni anno ad aggrapparmi grazie a ricordi che sporgono da sapori e odori.

Si concentra ad ottobre una messe di prodotti che rende le tavole contadine più ricche di quelle dei re; il mosto cotto con mandorle e cannella, che noi chiamiamo mostarda e che riempiva la casa e le narici con la nota pungente dei chiodi di garofano, insieme all’odore dei primi bracieri accesi di sera. I bastardoni, i fichidindia tardivi, più dolci e croccanti. I cachi (ma mia nonna diceva “cachì”), con la loro consistenza imbarazzante e quel gusto che chiama a sé e, se non sono maturi, allappa la bocca. 
Le noci nel cestino di vimini, i melograni così belli da vedere, coi chicchi da succhiare e sputare, e stai attenta che il succo macchia e non va più via. 
Le castagne: cotte al forno per conservarle tutto l'inverno o leggermente essiccate, mai bollite, raramente cucinate nel padellone da caldarroste. Avrei potuto morire congestionata e felice per le scorpacciate di castagne che mi facevo nella cucina di mia nonna. 
E poi le zippole alla ricotta per San Francesco, unte di frittura pesante nell’olio d’oliva. L’autunno non offriva la varietà dei frutti estivi e delle verdure dell’orto, ma ciò che si mangiava e il modo in cui veniva cucinato aveva più carattere e più sostanza di altri cibi stagionali. 
Così come l’aveva la vita semplice di quelle persone con cui sono cresciuta; “negri”, li ho sentiti definire una volta da un forestiero di passaggio, e che voleva citare il Lessico familiare della Ginzburg. “Negri” perché era gente che entrava in casa senza avvisare e senza bussare, che lasciava la chiave nella toppa esterna della porta, che non ringraziava se le passavi il pane o il sale a tavola. Che mangiava a testa bassa sul piatto e coi gomiti larghi, e aveva una casa coi mobili di fòrmica e le lenzuola ricamate; e conosceva la fatica e il lavoro che ci vuole per mangiare. 
Mi manca allo stremo quella cucina modesta che si riempiva di odori perché mia nonna, armata di fantale, faceva quello che le riusciva meglio: nutrirci. Non ci capiva, non ci assecondava: lei ci voleva bene dandoci da mangiare quello che c’era in casa, nel modo in cui lo sapeva cucinare. E il cibo era cibo, serviva per crescere (per ddubbarci, saziarci) non per costruirci attorno conversazioni, non per essere disposto con buon gusto - di cui eravamo sprovvisti - su eleganti piatti da portata che non avevamo. 
Mi manca quell’infanzia contadina e ruvida, durante la quale costruivo, mangiando, l’identità tra memoria e materia di cui sono fatti i miei ricordi migliori. 
Mi manca non poterla offrire alle mie figlie, perché quel mondo, che mi ha nutrita negli anni che formano, non esiste più. 

I sapori e gli odori di ottobre hanno dato forma all’amore e alla cura; e quella forma, per me, avranno per sempre. 
Mia nonna che si preoccupava che avessi mangiato a sazietà (“Ti faccio un uovo?” mi chiedeva alla fine di un pasto abbondante, convinta che il fatto che io avessi ripulito il piatto significasse che non era stato riempito abbastanza). 
Mio nonno che, con le mani ballerine per il Parkinson ormai avanzato, aveva impiegato un’intera mattinata per spellarmi tre castagne crude e farmele trovare accanto al piatto, al mio ritorno dall’università, perché sapeva che mi piacevano. 

Tre castagne malamente spellate, che torno a mangiare col ricordo, ogni ottobre, inghiottendo lacrime e gioia. 
Perché quel che è andato non torna, però c’è stato ed è stato mio.

domenica 2 ottobre 2016

Buone idee, ottimi pasticci

Della scuola non gliene frega niente a nessuno. 
Non ai genitori, non agli studenti, non agli insegnanti. Non mi spiego come mai, altrimenti, le tre categorie direttamente interessate stiano aspettando supinamente e in silenzio che passi questo settembre nero: un settembre fatto di cattedre vuote, insegnanti che aspettano nomine, assegnazioni, chiamate; molti di loro stanno aspettando accampati in B&B od ospitati da parenti e amici, mentre le loro famiglie aspettano, a casa, di sapere se mamme, papà, figli, faranno ritorno. 
Nel frattempo, gli studenti aspettano che i loro maestri e professori entrino in classe e comincino a insegnare, e che finisca questo balletto sconcio di entrate alla seconda ora, uscite anticipate, supplenze per riempire buchi d’organico. Le classi vengo smembrate e smistate nelle altre; gli alunni disabili sono senza gli insegnanti di sostegno. 

E tutto questo perché? Perché la mobilità straordinaria di quest’anno, in seguito al poderoso piano di assunzioni (da graduatorie e da concorso) è partita male e tardi ed è stata gestita peggio. Renzi ha ammesso che forse si poteva fare diversamente. Fossi in lui, chiederei conto a chi ha gestito, da un punto di vista amministrativo più che politico, questa delicata e complicatissima fase: perché le conseguenze si faranno sentire proprio nei prossimi mesi, e nei prossimi mesi ci sono appuntamenti importanti, per il Governo. Si è riusciti a trasformare un intervento politico positivo (lo sblocco delle assunzioni: ricordo che la Gelmini tagliò quasi centomila cattedre, con la sua riforma; e dov’erano allora i deportati che adesso gridano allo scandalo per essere stati assunti?) in un enorme pasticcio da dilettanti. Un pasticcio che crea danni e disagi alla scuola, e cioè alle persone. 

La mobilità straordinaria era stata decisa per tempo. L’imponente apparato amministrativo ministeriale avrebbe dovuto fare uno sforzo enorme e tempestivo per garantire che una decisione giusta portasse a conseguenze positive per tutte le parti in causa. E invece, il contratto sulla mobilità è stato firmato con due mesi di ritardo e il mastodonte si è mosso a fatica, quando era ormai irrimediabilmente tardi. Si sapeva già a maggio che sarebbe stato impossibile garantire un regolare inizio dell’anno scolastico 2016-17. E nessuno ha detto o fatto niente. 

Io credo che tutto questo avrebbe potuto essere evitato. 
Il modo improvvido e dilettantistico con cui è stata gestita questa faccenda è indicativo di uno dei principali problemi di Renzi: pensa in grande, spesso pensa anche giusto, ma poi realizza male, in modo approssimativo, alla buona, frettolosamente. È intelligente ma si applica in modo superficiale. E scontenta tutti. Non ditemi che assumere centinaia di migliaia di persone, indire un concorso dopo tre anni dall’ultimo (la regola era uno ogni dieci anni), che distribuire 500 euro agli insegnanti per l’aggiornamento culturale e tecnologico siano provvedimenti sbagliati. È che poi sono stati mescolati a stupidaggini come la chiamata diretta dei presidi (era un cavallo di battaglia di Valentina Aprea: sarà stato un pegno da pagare ad alleati impresentabili?). 

Alle stupidaggini si sono aggiunte le mancanze e la scarsa lungimiranza: c’è un provvedimento urgente, l’unico forse veramente benefico e risolutivo per migliorare didattica e funzionamento delle scuole; mi riferisco all’abbassamento del tetto del numero di alunni per classe e al rispetto inderogabile della legge vigente, secondo la quale, in presenza di un alunno disabile, i componenti della classe non possono superare il numero 20. 
Mia sorella, l’anno scorso, ha svolto il suo lavoro da neo assunta nel girone infernale del potenziamento (altra mezza cavolata: il potenziamento è giusto, ma da ripartire nel monte ore di TUTTI gli insegnanti in organico) in un professionale con classi da 37 alunni. E visto che questo scempio delle classi pollaio non è stato impedito nemmeno quest’anno, mia sorella è stata spedita dall’algoritmo in una regione che si trova nella metà superiore dell’Italia. E mia sorella ha una figlia piccola. Si va dove c’è il lavoro, per carità. Ma il lavoro ci sarebbe anche nella sua provincia, se le classi fossero composte da un numero dignitoso di alunni e se alle elementari e medie, anche al sud, si rispettassero gli standard di tempo pieno che sono la regola al nord. Qualcosa mi dice che l’occupazione femminile farebbe un balzo in avanti, nel negletto Meridione, se tutte le scuole fossero aperte il pomeriggio. 

Lo so qual è il problema: più classi significa più aule e quindi scuole nuove; più tempo pieno significa mense e locali adeguati, e quindi scuole nuove. Interventi strutturali urgenti e fondamentali per lo sviluppo di questo Paese. Come il ponte sullo Stretto, insomma. 

La frittata è fatta, il conto politico ed elettorale verrà giustamente pagato. Meno storytelling e un po’ più di buon senso e di normale efficienza avrebbero evitato a tutti un bel po’ di guai.

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domenica 25 settembre 2016

Da mi basia mille




Lo cerchiamo tutti, non tutti lo troviamo. E c'è chi lo trova senza cercare.
Il vero amore, quello che prima ti fa tremare le gambe e poi resta al tuo fianco per sorreggerti; quello che ti fa dimenticare tutto il resto, ma con lui tutto il resto ha finalmente senso.
Lo riconosci perché, passato lo scirocco impertinente dei primi tempi - quello che butta tutto all’aria e ti alza le gonne e ti fa turbinare e ballare occhi negli occhi – non ti lascia spettinata e stanca al centro della pista; non appena il vento è calato (nessun vento soffia mai perenne), quel che resta ti avvolge con la calma dell’aria ferma, dell’aria trasparente che non sfuma i contorni, non affosca il cielo, ti consente di scrutare lontano e cogliere i dettagli nitidamente. Ha braccia forti che bastano per due.
Il vero amore non ti chiede ciò che non hai, ma pretende quello che sei. Ti desidera anche senza prenderti, ti dà quello che vuoi, che tu lo sappia o meno. Arriva quando è il momento, se il momento arriva; altrimenti, stai solo inseguendo ombre cinesi su carta di riso. Non risolve tutti i tuoi problemi, nessuno può farlo, ma da sola saresti, appunto, sola.
Il vero amore lo provi per una persona che non smetti di desiderare anche quando è tua. È pieno di difetti, è vero; ma come gli stanno bene, addosso.
Non vuoi altro che il suo bene, lo vorrai per sempre e in cambio chiedi solo che esista. Puoi indossare la sua pelle e stare comoda o sentirti bellissima, e quella pelle ti calza a pennello, come se fosse la tua.
Lo riconosci subito, perché lo hanno fatto apposta per te; dà un verso ai tuoi giorni e un senso alla loro somma.
Se gli prendi la mano, hai tutto ciò che ti occorre. Se gli parli, lui ti ascolta. E ti vede.
Potreste fare tutto, insieme, oppure non fare niente ed essere colmi lo stesso.
Non è l’altra metà della mela; se hai bisogno che qualcuno ti completi, ti mancherà sempre qualcosa. 
Siete due, quei due. Due come tanti ma, insieme, felici. 
Io li ho visti, quei due, tanti anni fa: passeggiavano fianco a fianco lungo un molo sul Bosforo e avevano i capelli bianchi e i cappotti neri. Lui era davanti a lei, non al suo fianco: come se volesse rendere sicuri i suoi passi e aprirle la strada da fare insieme. Procedevano in silenzio, senza guardarsi. 
Sorridevano.


venerdì 23 settembre 2016

And the shame was on the other side

Confesso di essermi commossa leggendo la lettera della mamma coi sensi di colpa
Mi sono immedesimata in tutti i suoi moti di inadeguatezza, in ogni singolo sussulto per la propria involontaria incompletezza. Come ti capisco, sorella: fai una fatica bestia, ma non è mai abbastanza. La sera arriva prima ancora che tu abbia spento la sveglia del mattino, e non importa quanto tu sia stata gazzella: i predatori ti hanno già divorato i quarti posteriori fin dai blocchi di partenza. 
Resta sempre una ciocca di capelli ingrommati da districare (“Domani mattina, è la prima cosa che facciamo!”), un libro nuovo senza copertina di plastica (“Mamma, ne manca una!”), una bambina che non tocca cibo benché tu abbia cucinato tre pietanze diverse per accontentarle tutte. Resta almeno un broncio (“Mamma, raccontami la storia della buona notte! Mamma? Sei sveglia?”), i compiti che dovevamo fare insieme ("Ma intanto tu comincia, bambina, che io finisco di lavare i piatti"), l’ora al parchetto che ti avevo promesso e che continuo a rimandare perché il parchetto mi deprime e io non posso stare ferma, devo correre, non le vedi le fauci spalancate dietro di me? 
E ogni giorno si ricomincia: non da zero, ma col carico preventivo di quello che hai lasciato indietro ieri.

Poi, però, dopo essermi immedesimata, ci ho pensato e mi sono detta: senso di colpa un cavolo! (“Mamma, non si dice cavolo…”).
Io non ho colpe. Io sono un’eroina pura e indomita e merito medaglie al valore, bonus a tre zeri, ringraziamenti collettivi da parte di tutta la comunità, riconoscimenti pubblici e il cavalierato della Repubblica. Io, proprio io, madre di tre figlie, concepite e messe al mondo senza calcoli e programmi. Senza aiuti di Stato, senza buoni per asili nido o babysitter, senza tate tuttofare. Sono dipendente statale e quindi più tutelata di altre, ma non voglio certo dovermi sentire grata per un diritto. Ho ricevuto assistenza dai parenti e dagli amici: ed essere assistita non ti pone mai in una condizione di forza o indipendenza. Ho dovuto contrarre debiti di riconoscenza inestinguibili e confrontarmi con l’amara consapevolezza che, da sola, non ce l’avrei mai potuta fare. Tutto ciò ha un peso e un costo e io ho sostenuto il primo e pagato fino in fondo il secondo.
Al diavolo gli stili di vita sani o le cattive compagnie: io vedo solo il valore, l’abnegazione, l’eroismo delle madri. E questo fin dalla notte dei tempi, fin da quando ci accucciavamo in una caverna per sgravare al buio.
Mi rifiuto di sentirmi in colpa se non riesco a far tutto; mi rifiuto di autoaccusarmi di inadeguatezza, di piagnucolare perché io vorrei tanto essere una mamma perfetta, ma come si fa se nessuno mi aiuta, perché io la teoria la so ma la pratica è troppo al di sopra delle mie possibilità.
No cari miei. Non sono io a dovermi sentire in colpa se alla fine della giornata il saldo della perfezione materna non è mai positivo. Non mi sento in colpa se, ogni giorno, sono costretta a riconoscere che avrei dovuto fare di più: perché quello che ho fatto è un miracolo che si compie quotidianamente e non sono nemmeno Dio.
Io il contributo alla Patria e al saldo demografico naturale l’ho dato tre volte e continuo a fare la mia parte ogni giorno.
Se non volete premiarmi, o almeno aiutarmi, allora non aspettatevi da me anche il senso di colpa.
Un “grazie” ci potrebbe stare.
Il Fertility Day infilatevelo su per il Ministero, invece.

martedì 20 settembre 2016

Calzini spaiati



- Solal.
- Ariane.
- Ti sei accorto che non ci sei più?
- Me ne sto facendo una ragione, Ariane.
- Stai bene senza di me?
- Sì. Sto bene. E tu?
- Anch’io. Mi sento meglio, senza di noi.
- Peccato, Ariane. Eravamo molto simpatici.
- Sì. Non proprio una bella coppia, però si rideva.
- Già. Ridevamo di noi stessi e delle stesse cose. Poi però tu, Ariane, hai cominciato a ridere di me.
- Solo perché tu hai fatto cose molto ridicole, Solal.
- Adesso non ridiamo più.
- No. Non c’è proprio più niente da ridere. Adesso è il tempo della rabbia e della delusione. Ma secondo te, era amore?
- Per me lo era, Ariane.
- Allora l’amore finisce?
- Certo. Come tutto il resto. Poi però, tutto continua, da un’altra parte.
- Forse non era vero amore.
- Ariane, se ti fa bene crederlo.
- Secondo te, è finita per colpa tua o per colpa mia?
- Per colpa tua.
- Io credevo per colpa tua!
- Impossibile. Io non ho colpe. E se ne ho avute, mi sono già perdonato da un pezzo.
- Ti manco mai?
- Sempre. Mi mancherai sempre. Però mi mancavi anche mentre stavamo insieme. Adesso almeno comincio a essere felice.
- A me manca il formato famiglia. Tu non mi manchi per niente, Solal.
- Mancheremo a quelle tre. I genitori a corrente alternata non fanno molta luce.
- Sai cosa mi dispiace? Che nel lettone, la domenica mattina, le bimbe non troveranno più una mamma e un papà che si sono addormentati stanchi, la sera prima; stanchi ma allacciati, perché le braccia, il petto, la testa non cercano altro. Perché la sfrontata certezza di essere al posto giusto non ha modo migliore di manifestarsi che in un facile abbraccio.
- Che bella frase, Ariane.
- Davvero ti piace?
- No. Mi fa cagare. Come la maggior parte delle cose che scrivi.
- A me invece piaceva quello che scrivevi. Inutilmente contorto, a volte, ma sempre originale.
- Non era contorto. Eri tu che non ci arrivavi.
- Però non scrivi più. Come mai non scrivi più, Solal?
- Sto vivendo molto, ultimamente. Fra un po’ ricomincio, stai tranquilla.
- Bene. Mi hai fatto molto male, però.
- Anche tu.
- È il mestiere dei coniugi che si separano, Solal: farsi del male ed essere peggiori di quel che si potrebbe essere.
- Avremmo potuto far meglio.
- No, non avremmo potuto. Siamo due qualunque; non è difficile ammetterlo.
- Parla per te; io sono speciale. Sei tu quella che è banale in maniera esasperante. Dio quanto sei banale. E pure stupida. Bella ma stupida.
- Sì. Forse hai ragione. Per questo adesso non stiamo più insieme. Perché tu sei troppo speciale per me. Solal?
- Ariane?
- Dio come sono felice di non dover più raccogliere i tuoi calzini sporchi da sotto il letto.
- Sento che sta per arrivare una tua metafora. Una delle tue immortali, inutili, mediocri metafore.
- No, è una similitudine. L’amore come un paio di calzini: si può spaiare. Uno si perde, l’altro resta. Solo e senza argomenti.
- Io non mi sono perso. E, soprattutto, non sono rimasto né solo né senza argomenti.
- In effetti, neanch’io.
- Bene. Ti arrendi?
- No. Voglio chiudere con una frase ad effetto. Che ne dici di: “L’amore non finisce. L’amore sparisce. Come i calzini nella lavatrice. O le forchette quando sparecchi”?
- Scusa, ho mentito. Non è vero che mi mancherai, Ariane. 
- Lo so. Ed è molto meglio così, per tutti.
- Ciao, Ariane.
- Ciao, Solal.






mercoledì 14 settembre 2016

Fiabe intimidatorie

Clementina era una bambina come ce ne sono tante: aveva due braccia, due gambe e venti dita in tutto tra mani e piedi, anche se distribuite un po' a casaccio. 

Eppure, un giorno le capitò una cosa stranissima, mai vista, un vero fenomeno paranormale: una mattina si svegliò ed era diventata monella. Così, d’un tratto, senza nessun preavviso! E nessuno riusciva a spiegarsi perché. Nell’ultima settimana, non le era successo nulla di speciale: aveva solo perso un dentino, aveva trovato un gattino e le era nato un fratellino. 

Fatto sta che la monellaggine, in quattro e quattr'otto, aveva raggiunto livelli preoccupanti; la mamma e il papà non ne potevano proprio più: era diventata una bambina impossibile. 
Un giorno l’aveva fatta proprio grossa. Aveva nascosto il fratellino dentro la cesta dei panni sporchi, in mezzo ai calzini puzzolenti di papà, e la mamma l’aveva ritrovato per caso - solo perché era una mamma che faceva spesso il bucato. 

Così suoi genitori decisero di portarla dal dottore per vedere se si riusciva a trovare una cura. 
Il dottor Cacciapulci era un dottore bravissimo, che aveva un rimedio per tutto, nel senso che in genere prescriveva un solo rimedio per tutte le malattie: una bella supposta! 
Questa volta, però, vista la gravità del problema di Clementina, la sottopose ad una visita accurata: le auscultò con lo stetoscopio le piante dei piedini, le fece dire trentatré a testa in giù e le strappò un capello per analizzarlo con la sua lente d’ingrandimento. “Monellite acuta!”sentenziò alla fine della visita. 
Anziché aggiungere, come faceva sempre, “mettiamo una suppostina”, aprì il cassetto della sua scrivania e tirò fuori una scatolina bianca; dentro c’erano due pillole tonde: una gialla e una rossa. 
Disse: “Per far passare questa brutta malattia, non basterebbero sette supposte! Ci vorrà l'antimonellotico!” 
E prese il confetto giallo. 
“Apri la bocca” ordinò a Clementina. Ma Clementina, da quando era monella, se qualcuno le chiedeva di fare qualcosa, rispondeva sempre di no; così, anche questa volta, chiuse gli occhi, aprì la bocca e cominciò a urlare: NO!”. 
Il dottor Cacciapulci non aspettava altro; lanciò la pillola da tre metri di distanza e centrò la bocca spalancata di Clementina, che la dovette inghiottire. 
La medicina ebbe subito uno strano effetto: la bocca di Clementina era rimasta aperta, a forma di O, la “o” di “NO”, per l’appunto. 
Il dottor Cacciapulci la guardò tutto soddisfatto; la mamma invece era preoccupata. 
“Ma non le farà male?” chiese. 
“Niente affatto. Me la riporti tra una settimana, vedrà che starà già meglio”. 
Clementina, effettivamente, stava molto meglio, almeno per quel che riguarda la monellite: provateci voi a fare dispetti quando non potete mai, nemmeno per un secondo, chiudere la bocca! 
La bocca aperta è un grosso inconveniente: per prima cosa non si riesce a parlare; e poi, è come quando lasci una finestra aperta, prima o poi qualcosa entra in casa: api mosche zanzare, polvere cartacce e foglie secche e qualche volta anche una rana. 
E anche nella bocca sempre aperta di Clementina entravano tutte queste cose, e lei aveva un bel daffare a farle uscire - soprattutto la rana - perché quando non puoi chiudere la bocca, non puoi neanche sputare (provare per credere). 

Insomma, Clementina era sicuramente guarita, ma non si poteva dire che stesse bene o che fosse contenta. Non era più nemmeno andata a scuola. Non aveva nessuna voglia di sapere cosa avrebbero detto le maestre e i suoi compagni se si fosse presentata in classe con la bocca spalancata piena di insetti, cartacce e una rana. 

La settimana, infine, passò. I genitori di Clementina riportarono la loro figliola dal dottor Cacciapulci, che si sfregò le mani tutto contento quando vide quanto bendidio si era raccolto dentro la boccuccia spalancata della sua paziente. 
Armato di pinze, estrasse uno a uno insetti, foglie secche, palline di carta e un tappo di sughero; la rana saltò direttamente dentro la sua borsa degli strumenti. Quando la bocca fu ripulita, il dottor Cacciapulci prese di nuovo la scatolina bianca; ma questa volta estrasse la pillolina rossa. La mise sulla lingua di Clementina e, oplà, la bocca come per magia si richiuse. 
Clementina non stava in sé dalla gioia: cominciò a sputare, soffiare ridere e cantare, a fare tutte quelle cose, insomma, che si possono fare quando la vostra bocca risponde agli ordini! 
“Allora dottore, è guarita?” chiese la mamma tutta ansiosa.
“Ditemelo voi: ha più fatto la monella dopo la somministrazione del farmaco giallo?” disse il dottor Cacciapulci. I genitori di Clementina si guardarono e fecero segno di no con la testa. 
“E tu, signorina, cosa mi dici? Ti senti ancora monella da qualche parte?” domandò il dottore a Clementina. La quale, per tutta risposta, si tappò la bocca con entrambe le mani. 
“Bene, bene, bene”. Il dottor Cacciapulci si alzò dalla sedia, aprì un armadietto che si trovava dietro la scrivania e mostrò loro una pila di scatoline bianche. 
“Se si dovesse ripresentare il problema, dovremo ripetere la terapia” spiegò. 
Clementina cominciò a sudare. 
“L’unico inconveniente di questa medicina, è che si può somministrare solo sei volte” sospirò il dottor Cacciapulci. 
“E cosa succede la settima volta?” chiese la mamma un po’ preoccupata. 
“Niente, le daremo questa”. 
Il dottore aprì l’ultima scatolina: dentro c’era solo una pillola gialla. Clementina si mise a tremare. 
“Ma senza pillola rossa la bocca non si chiuderà più!” esclamò la mamma. 
“Ebbene, sì”, disse il dottor Cacciapulci, e infilò soddisfatto i pollici nei taschini del camice. “A meno che la signorina qui non preferisca continuare a fare la monella...” 
Clementina stava per mettersi a urlare “NOOOO!!!”, però si ricordò in tempo della mira infallibile del dottore. Così si tappò la bocca con entrambe le mani e scosse forte la testa, in segno di energico diniego. 

Ci credereste? Da quel momento, Clementina non si svegliò più monella e la mamma, il papà, il fratellino e la rana ne furono molto ma molto felici. 

(Modalità di somministrazione: raccontare la storia la sera prima di andare a dormire e, al momento di spegnere la luce, poggiare con nonchalance uno smarties giallo sul comodino).

giovedì 1 settembre 2016

Mani

- Mamma, quando tu non ci sei io non sto bene – mi dice la piccola di quattro anni, al telefono. 
La voce non trema: è un dato di fatto, registrato e comunicato. Lo so che sta bene. È coi nonni al mare, è contenta, si diverte. No, la sua è più una considerazione esistenziale e vale anche al contrario: nemmeno io sto bene, quando loro non ci sono. (Ok, quando non ci sono per più di una settimana). 
Io non sono le mie figlie, non sono solo la loro mamma; vengo da lontano, sono nata prima dei miei tre parti. Riguardo alla mia identità ho le idee abbastanza chiare. L’esogestazione è finita da un pezzo; ho imparato dove finisco io e dove comincia ognuna delle tre. E se lo so io, lo sapranno anche loro, a tempo debito. Mi pare una buona cosa. 
Senza di loro, dunque, io sono sempre io. Però, senza di loro, io non potrei vivere. 
Non è una frase fatta. Per me, almeno, non lo è più da questa estate. 
Ho avuto una fortuna immensa, il mese scorso, e ne sarò sempre grata al dio delle madri: la fortuna di poter raccontare una disavventura capitatami con la figlia mezzana, un brutto momento che è diventato presto aneddoto, racconto, non tragedia. Non la fine della mia vita. 
Una brutta febbre virale, sintomi trascurati, una capatina al pronto soccorso, giusto per essere sicuri che non fosse niente di grave. E poi, le condizioni che si aggravano di colpo e la discesa agli inferi. Una dottoressa con poca esperienza che interpreta i sintomi clinici in maniera un po’ scolastica. Pensavo avesse il virus intestinale, invece, nel giro di mezzora, mi ritrovo ad osservare su un monitor il cranio di mia figlia scansionato dalla Tac. E poi una corsa in ambulanza a sirene spiegate, verso un ospedale meglio attrezzato per le emergenze. 
Cinque ore è durato il mio viaggio nell’Aldilà. Poi è finita bene: non era quel che temevano, la bimba si è ripresa rapidamente. 
Ma cinque ore di immersione integrale nell’abisso della paura, del nulla, della fine, non lasciano indenne nessuno. 
Ho capito, ho visto, che non resta vita, senza lei o le altre due. Ho visto che non resta forza, benché ci si regga in piedi e si riesca a parlare, prendere decisioni, aspettare i risultati degli esami. C’è solo una paura cieca, da animale braccato senza via di scampo. Sai, lo sai subito, che finisce tutto lì. E che non esistono esseri umani al mondo, a parte loro tre, senza i quali finirebbe tutto. E sono certa che per provare l’orrore e la paura che ho provato io in quelle ore, bisogna essere madri. O padri. Non è dolore, non è privazione: è semplicemente la fine. 
L’ho vista, la fine, sulle palpebre di mia figlia che diventavano sempre più sottili e trasparenti, appiccicate ai bulbi oculari. L’ho vista mentre stringevo le sue mani e osservavo le unghie, le dita, quella perfezione creata dal nulla che sembrava stesse andando via. L’ha vista anche suo padre, lontano mille chilometri, senza quella manina tra le sue. 
Ho appoggiato la guancia sulla fronte di mia figlia e quella mano si è sollevata e si è posata sulla mia spalla, in un abbraccio lieve come una piuma che scappa da un cuscino. Leggera, ha spezzato il mio cuore in quel preciso istante. 
Che brutta avventura. Che bello poterla raccontare, sani e salvi. 
Ma da qualche parte, là fuori, tra i calcinacci e le macerie, sott'acqua, nei letti d’ospedale, ci sono storie che finiscono in un altro modo. Ci sono storie che finiscono. E io adesso so cosa vuol dire. Ma mai, mai avrei voluto saperlo.


venerdì 29 luglio 2016

Tintura d'odio

Interno giorno. 

Parrucchiere di paese, a gestione familiare integrale (lui taglia, la moglie risponde al telefono, sua madre fa lo shampoo, il figlio gioca coi Lego respirando effluvi di tintura).
Non c’è ressa, saremo tre o quattro clienti in tutto. 
L’arredo è anni settanta, a voler essere velleitari. I toni della stanza variano dal nero stinto, al marrone-sporco, al grigio-topo. 
Il parrucchiere è un bravo ragazzo; mi dice che a settembre si trasferiscono tutti al nord, perché ha trovato lavoro in un grande barber shop. Dice che non gli pesa lavorare sotto un padrone; è stufo delle carte e della burocrazia: meglio un posto sicuro. 
Mi immergo nella lettura del giornale, mentre aspetto che il colore in posa sulla ricrescita mi riporti indietro nel tempo; i capelli impiastricciati sono appiccicati al cranio, le punte sparate in tutte le direzioni. 
Dio quanto è ridicola una donna mentre si fa la tinta. 
Leggo del prete francese sgozzato da un ragazzino. Mi angoscio. 
La signora seduta nella poltrona accanto a me comincia a parlare a voce alta: riconosco le frasi che dice per averle sentite decine di volte, come il ritornello di una hit estiva: sono le stesse che, ogni anno, sento dire ai miei alunni, in classe, quando si parla di immigrazione. 

“Vengono tutti qua e poi li dobbiamo mantenere noi! Gli danno 35 euro al giorno, a questi qua, che girano coi cellulari nuovi, e poi ci sono tanti poveri italiani per strada che non sanno come campare e a loro non gli danno niente”.

Intervengo, in automatico: “I 35 euro li danno alle cooperative che li accolgono, tutte gestite da italiani; ai profughi credo spetti una diaria di 2,50 euro”. 

La signora annuisce approvando, come se avessi prodotto un argomento a suo favore. 
Sto per chiederle dove sono questi italiani che vivono per strada, qui, nella Riviera Jonica, perché io non ne ho mai visti, ma lei è già andata oltre, e sembra un generatore automatico di cazzate di Salvini: 

“E poi vengono qui e ci rubano il lavoro a noi italiani”. 
“E i loro figli li dobbiamo mantenere noi a scuola, e se stanno male vanno in ospedale e pretendono di essere curati gratis! Perché li conoscono perfettamente i loro diritti, meglio di me li conoscono! E devi vedere come pretendono, come chiedono!” 

E fino a qui avrei potuto anticipare, parola per parola, tutto quello che ha detto, livida, con la voce schifiata, perché sono le stesse cose che ripetono con odio e baldanza i miei alunni, nelle mie classi venete, e le ripetono perché non le hanno pensate: le hanno sentite dire a casa, a mamma, papà, fratelli, zii e parenti. 
Ma poi arriva la sorpresa. 

“E i bambini che colpa ne hanno, poveretti?” interviene infatti a quel punto la madre del parrucchiere, guardando teneramente il nipotino che gioca. 

“Niente, nessuna colpa! Ma a loro nelle scuole tutto l’aiuto è dovuto, li aiutano in tutti i modi, perché sono extracomunitari, ma i nostri bambini, guai! per loro non fanno niente! Io lo so, eh! Perché, non lo so che per loro si fa tutto e per i nostri niente?” si scalda la signora. 

A questo punto la me stessa indignata vorrebbe balzare in piedi e urlare, paonazza: 

Ma li aiuta, chi? Ma non fanno niente, chi? Ma dove minchia li vedi, deficiente, tutti questi extracomunitari nelle classi dei bambini siciliani? La popolazione scolastica siciliana è diminuita di diecimila unità, negli ultimi anni, bestia, mentre al nord i numeri restano invariati. E lo sai perché, capra? Non perché ci sia un calo di nascite maggiore che nel resto del paese, ma perché nel resto del paese gli stranieri mantengono il saldo in pari! Perché solo il 3% di tutti gli immigrati decide di stabilirsi in Sicilia, che è una terra che sta invecchiando e morendo sotto cumuli di immondizia e quindi tu e i tuoi conterranei, come me, siete destinati ad estinguervi, come è giusto che sia, perché nemmeno un disgraziato che scappa dalla guerra e dalla fame sceglierebbe di vivere in una regione che è capace di produrre solo munnizza! Perché la metà dei compagni di classe di mia figlia, in Veneto, quest’anno, aveva il cognome straniero; e le sue maestre le hanno insegnato lo stesso a leggere e scrivere! E le classi erano piene, e le scuole pure. Mentre qui in Sicilia tuo nipote di compagnetti stranieri che “vengono aiutati e invece lui no”, non ne ha, pecorona ignorante! E la sua insegnante, probabilmente, sarà costretta a fare le valigie, quest’estate, e trasferirsi al nord, dove potrà andare in giro a lamentarsi che il tempo è una merda, e poverina la capisco, ma la pagheranno per lavorare, e lo potrà fare solo lì perché lì è pieno di marocchini, moldavi, albanesi, cinesi, tunisini e macedoni che lavorano e mandano i figli a scuola! Cretina! 

E so che il parrucchiere mi darebbe ragione, se dicessi tutto questo, perché pure lui se ne sta andando dalla Sicilia, con tutta la famiglia, compreso il figlio che da settembre non frequenterà più una scuola siciliana. 

Ma io tutto questo non lo dico. Sto per dirlo, l’ho tutto pensato in un attimo, ma non lo faccio, e non so nemmeno io perché. Forse perché ho la tinta nei capelli e una mantellina di plastica legata attorno al collo e tutto ciò non si addice al fervore civico e sentimentale che mi anima. 
O forse perché mi sento impotente di fronte alla stupidità, all’ignoranza e alla malafede e quindi sono colpevole quanto la signora cretina che mi sta a fianco. 
Impotente e colpevole, taccio. 

Poco dopo, mentre accompagno le bambine al mare, l’auto che ci precede investe un gatto e tira dritto. 
Freno: è la prima volta che assisto all’agonia di un essere vivente. La bestiola fa tre o quattro balzi, mossa dal dolore che deve essere atroce; poi si accascia in uno sbocco di sangue e resta a tremare e a morire in mezzo alla strada. 
Io e le bambine urliamo. Non sappiamo cosa fare, il gatto sta morendo. Questa è la sofferenza senza rimedio e fa male vederla. Vorrei scendere, ma non avrei mai il coraggio di toccarlo, non saprei nemmeno cosa fare. Faccio manovra per non passargli sopra. La gente per strada scuote la testa, qualcuno impreca; ma tutti - me compresa – tiriamo dritto per la nostra strada. 

Impotenti e colpevoli, tutti.

(Il parallelismo tra gatti e immigrati può sembrare irrispettoso, ma non è questo il punto).