venerdì 29 luglio 2016

Tintura d'odio

Interno giorno. 

Parrucchiere di paese, a gestione familiare integrale (lui taglia, la moglie risponde al telefono, sua madre fa lo shampoo, il figlio gioca coi Lego respirando effluvi di tintura).
Non c’è ressa, saremo tre o quattro clienti in tutto. 
L’arredo è anni settanta, a voler essere velleitari. I toni della stanza variano dal nero stinto, al marrone-sporco, al grigio-topo. 
Il parrucchiere è un bravo ragazzo; mi dice che a settembre si trasferiscono tutti al nord, perché ha trovato lavoro in un grande barber shop. Dice che non gli pesa lavorare sotto un padrone; è stufo delle carte e della burocrazia: meglio un posto sicuro. 
Mi immergo nella lettura del giornale, mentre aspetto che il colore in posa sulla ricrescita mi riporti indietro nel tempo; i capelli impiastricciati sono appiccicati al cranio, le punte sparate in tutte le direzioni. 
Dio quanto è ridicola una donna mentre si fa la tinta. 
Leggo del prete francese sgozzato da un ragazzino. Mi angoscio. 
La signora seduta nella poltrona accanto a me comincia a parlare a voce alta: riconosco le frasi che dice per averle sentite decine di volte, come il ritornello di una hit estiva: sono le stesse che, ogni anno, sento dire ai miei alunni, in classe, quando si parla di immigrazione. 

“Vengono tutti qua e poi li dobbiamo mantenere noi! Gli danno 35 euro al giorno, a questi qua, che girano coi cellulari nuovi, e poi ci sono tanti poveri italiani per strada che non sanno come campare e a loro non gli danno niente”.

Intervengo, in automatico: “I 35 euro li danno alle cooperative che li accolgono, tutte gestite da italiani; ai profughi credo spetti una diaria di 2,50 euro”. 

La signora annuisce approvando, come se avessi prodotto un argomento a suo favore. 
Sto per chiederle dove sono questi italiani che vivono per strada, qui, nella Riviera Jonica, perché io non ne ho mai visti, ma lei è già andata oltre, e sembra un generatore automatico di cazzate di Salvini: 

“E poi vengono qui e ci rubano il lavoro a noi italiani”. 
“E i loro figli li dobbiamo mantenere noi a scuola, e se stanno male vanno in ospedale e pretendono di essere curati gratis! Perché li conoscono perfettamente i loro diritti, meglio di me li conoscono! E devi vedere come pretendono, come chiedono!” 

E fino a qui avrei potuto anticipare, parola per parola, tutto quello che ha detto, livida, con la voce schifiata, perché sono le stesse cose che ripetono con odio e baldanza i miei alunni, nelle mie classi venete, e le ripetono perché non le hanno pensate: le hanno sentite dire a casa, a mamma, papà, fratelli, zii e parenti. 
Ma poi arriva la sorpresa. 

“E i bambini che colpa ne hanno, poveretti?” interviene infatti a quel punto la madre del parrucchiere, guardando teneramente il nipotino che gioca. 

“Niente, nessuna colpa! Ma a loro nelle scuole tutto l’aiuto è dovuto, li aiutano in tutti i modi, perché sono extracomunitari, ma i nostri bambini, guai! per loro non fanno niente! Io lo so, eh! Perché, non lo so che per loro si fa tutto e per i nostri niente?” si scalda la signora. 

A questo punto la me stessa indignata vorrebbe balzare in piedi e urlare, paonazza: 

Ma li aiuta, chi? Ma non fanno niente, chi? Ma dove minchia li vedi, deficiente, tutti questi extracomunitari nelle classi dei bambini siciliani? La popolazione scolastica siciliana è diminuita di diecimila unità, negli ultimi anni, bestia, mentre al nord i numeri restano invariati. E lo sai perché, capra? Non perché ci sia un calo di nascite maggiore che nel resto del paese, ma perché nel resto del paese gli stranieri mantengono il saldo in pari! Perché solo il 3% di tutti gli immigrati decide di stabilirsi in Sicilia, che è una terra che sta invecchiando e morendo sotto cumuli di immondizia e quindi tu e i tuoi conterranei, come me, siete destinati ad estinguervi, come è giusto che sia, perché nemmeno un disgraziato che scappa dalla guerra e dalla fame sceglierebbe di vivere in una regione che è capace di produrre solo munnizza! Perché la metà dei compagni di classe di mia figlia, in Veneto, quest’anno, aveva il cognome straniero; e le sue maestre le hanno insegnato lo stesso a leggere e scrivere! E le classi erano piene, e le scuole pure. Mentre qui in Sicilia tuo nipote di compagnetti stranieri che “vengono aiutati e invece lui no”, non ne ha, pecorona ignorante! E la sua insegnante, probabilmente, sarà costretta a fare le valigie, quest’estate, e trasferirsi al nord, dove potrà andare in giro a lamentarsi che il tempo è una merda, e poverina la capisco, ma la pagheranno per lavorare, e lo potrà fare solo lì perché lì è pieno di marocchini, moldavi, albanesi, cinesi, tunisini e macedoni che lavorano e mandano i figli a scuola! Cretina! 

E so che il parrucchiere mi darebbe ragione, se dicessi tutto questo, perché pure lui se ne sta andando dalla Sicilia, con tutta la famiglia, compreso il figlio che da settembre non frequenterà più una scuola siciliana. 

Ma io tutto questo non lo dico. Sto per dirlo, l’ho tutto pensato in un attimo, ma non lo faccio, e non so nemmeno io perché. Forse perché ho la tinta nei capelli e una mantellina di plastica legata attorno al collo e tutto ciò non si addice al fervore civico e sentimentale che mi anima. 
O forse perché mi sento impotente di fronte alla stupidità, all’ignoranza e alla malafede e quindi sono colpevole quanto la signora cretina che mi sta a fianco. 
Impotente e colpevole, taccio. 

Poco dopo, mentre accompagno le bambine al mare, l’auto che ci precede investe un gatto e tira dritto. 
Freno: è la prima volta che assisto all’agonia di un essere vivente. La bestiola fa tre o quattro balzi, mossa dal dolore che deve essere atroce; poi si accascia in uno sbocco di sangue e resta a tremare e a morire in mezzo alla strada. 
Io e le bambine urliamo. Non sappiamo cosa fare, il gatto sta morendo. Questa è la sofferenza senza rimedio e fa male vederla. Vorrei scendere, ma non avrei mai il coraggio di toccarlo, non saprei nemmeno cosa fare. Faccio manovra per non passargli sopra. La gente per strada scuote la testa, qualcuno impreca; ma tutti - me compresa – tiriamo dritto per la nostra strada. 

Impotenti e colpevoli, tutti.

(Il parallelismo tra gatti e immigrati può sembrare irrispettoso, ma non è questo il punto).

martedì 26 luglio 2016

Schemi da spiaggia




Le giornate trascorrono tutte uguali, cadenzate da granite, tuffi, pranzi affollati, cattive notizie dal mondo, bambine che continuano a perdere le ciabattine, che crescono all’improvviso e a settembre vanno in prima media, bambine che galleggiano coi braccioli e se la cavano da sole in mezzo al mare. 
Da settimane, immobile sotto l’ombrellone, aspetto risposte dal futuro (al quale spero di aver fatto le domande giuste) e nel frattempo osservo le persone, presenti e passate, e rifletto. E poi schematizzo, perché gli schemi rendono tutto più comprensibile e non impediscono l’analisi. 
E le persone, schematizzando, si dividono principalmente in tre tipi: semplici, complicate e complesse. 

Semplice viene dal latino simplex (sem+plex): significa “piegato una sola volta”. Quindi non liscio, ma con una piega: una sola. Tolta quella, non restano segreti, domande o difficoltà. Una piega, un meccanismo elementare, un solo movimento e tutto si s-piega. Le persone del tipo semplice praticano la reductio ad unum: evitano la varietà, la moltiplicazione delle opzioni, si accontentano di un solo colore, di un solo tipo di pasta, del vino della casa e cambiano l’auto ogni venti anni. Sono pigre, forse; probabilmente sagge. A volte possono essere molto intelligenti. 
La maggior parte degli adulti che hanno riempito il mio mondo di bambina appartengono o appartenevano a questa categoria. Mano a mano che ne scoprivo, con poco sforzo, il funzionamento basilare, la loro semplicità mi inferociva, mi toglieva aria, mi deludeva. Adesso che sono cresciuta, quella stessa semplicità mi sostiene, mi rassicura e mi placa. 
Non è difficile capire una persona semplice. Lo è saperla apprezzare. 

Se non sei semplice, invece, ci sono solo due possibilità: o sei complicato, o sei complesso. E non ne farei una questione di genere.

Complicato viene da complico (tutte e tre le parole contengono la medesima radice indoeuropea, plek, che significa “piega” o “parte”), cioè “piego assieme” (cum+plico), più e più volte. 
Se sei complicato significa che sei pieno di pieghe, ingarbugliato, incasinato. Il complicato è avviluppato in sé stesso e da sé stesso, è imbrogliato e, allo stesso tempo, imbroglia. Nel complicato c’è sempre qualcosa di inautentico da cui bisogna guardarsi. 
Le persone complicate non sono pericolose, in fondo; però possono fare del male, perché tendono ad avvolgere e a stringere tra le proprie spire chi sta loro accanto. I complicati lo sono sempre sulla pelle altrui. Sono però irresistibili, almeno all’inizio. Se si ha a che fare con una persona complicata, la tentazione di togliergli qualche piega di dosso è fortissima. È quasi un gesto meccanico, come lisciare con la mano la gonna spiegazzata.
Può dare anche qualche soddisfazione, come quando si viene a capo del filo ingarbugliato e si riavvolge la matassa. Solo che non sempre è facile sbrogliarla, perché, ovviamente, i gradi di complicatezza possono essere tanti. Si può andare dalla semplice camicetta spiegazzata al plissé definitivo. Nel primo caso basta un colpo di ferro da stiro; nel secondo, forse, nemmeno una pressa. In entrambi i casi, il complicato, il “pieno di pieghe”, può causare fastidio e fatica; e ci vuole tanta pazienza e spirito di sacrificio perché le pieghe vengano lisciate una a una, fino ad arrivare alla nuda spianata, che, il più delle volte, è una landa desolata. Un complicato con le pieghe appiattite è pronto per essere cestinato. Se lo spiani, lo smascheri per quello che è: un semplice che si è così tanto contorto e avviticchiato da non farsi più riconoscere. 
Ho avuto a che fare con persone complicate, nella mia vita: all’inizio mi hanno affascinata, poi è sopraggiunta la noia. Perché, come nel caso dei semplici, il meccanismo è sempre quello, solo che si replica all’infinito e dopo un po’ stanca. I complicati, se smascherati, sono prevedibili e quindi gestibili. Si può vivere con loro, se ci si abitua al fatto che nulla sarà mai facile; faranno sempre ciò che hai imparato ad aspettarti da loro e raramente ti deluderanno. 
Le eventuali sorprese saranno in realtà contrattempi. Complicazioni, appunto. 

Complesso viene invece dal latino complexus, che è il participio passato di complector ("abbraccio", "comprendo", da cum + plector, "intreccio insieme"). 
Non giustapposizione di pieghe ma trama. 
La persona complessa può essere come un fuoco vivo che ti scalda. Non è statico, non è prevedibile, ma nemmeno inquietante. Chi è complesso non ha pieghe visibili, ma ti sorprenderà con i suoi scarti improvvisi. Che saranno solo apparentemente inspiegabili. Poi ti accorgerai che non li devi spiegare: richiedono di essere compresi (prendere insieme, cogliere, racchiudere), operazione ben più stimolante e coinvolgente dell’appiattire le increspature. Li devi abbracciare. C’è in loro un meccanismo raffinato, un sistema composto di più parti focali interconnesse, che funzionano l’una in relazione all’altra, e tutto si tiene. La struttura resta nascosta, ma regge l'insieme: una persona complessa può anche essere scambiata per una semplice. Ma l’equivoco non dura molto. 

Volendo ancora schematizzare: da un complicato si può voler scappare. Da un semplice si ritorna. Da un complesso non è necessario allontanarsi. 

Mi sorge, però, un tipico dubbio da ombrellone: e se invece che “tipi” fossero solo “fasi”? Delle modalità che si attraversano in base all’età e alla disposizione: c’è la semplicità dell’infanzia, le estenuanti complicazioni adolescenziali e giovanili, e poi la complessità dell’età matura. 
Infantile, adolescenziale e maturo possono quindi essere sinonimo di semplice, complicato e complesso? No, troppo schematico. 
Cancello la lavagna e ricomincio.
Allora: sono seduta sotto un ombrellone e osservo.
Ho ancora qualche settimana di ferie.