sabato 26 novembre 2016

Madri salde



- Mamma, devo dirti una cosa.

Lo sguardo basso, un sorrisino imbarazzato e storto che mi fa rizzare i peli sugli avambracci.
No, non sono pronta, urla la mamma in esogestazione permanente che alberga dentro di me.

- Dimmi, figlia mia.

Sorrido solo con la bocca. Ha undici anni. Il suo corpo “sta scaldando i motori” (metafora usata dal pediatra durante l’ultimo bilancio di salute).

- Mamma, non so come dirtelo. Ma io non credo più a Babbo Natale.

Per un lungo secondo resto sospesa tra la voglia di mettermi a cantare per il sollievo e il bisogno di abbracciarmi da sola e dondolare il busto lanciando lugubri gemiti. Invece la fisso a bocca aperta.

- Da almeno un anno ormai - e c'è pietà per me, nel suo sguardo.

La mia bambina. Sola, per un anno, con la sua scoperta da fine del mondo dell’infanzia.

- E non credo più nemmeno alla formichina dei dentini.

È proprio finita. La abbraccio facendo finta di piangere disperata e lei ride. La costringo a promettere che non lo dirà alle due più piccole, finché non lo scopriranno da sole anche loro.

Ha iniziato il suo cammino lungo il sentiero che si biforca da me e d’ora in poi sarà una lunga sequela di scoperte, mie e sue.
Sono salda, però; sento di potercela fare ad accompagnarla lungo tutto il percorso. 

- Mamma, c'è un'altra cosa.
- Dimmi, bambina mia.
- Un mio compagno mi ha detto che sono sexy. Che vuol dire “sexy”?

Le ho risposto: chiedilo a papà.



giovedì 24 novembre 2016

Il quinto stato

“Gli uomini sono degli ebeti, si sa. Ma i veri danni, ricordatelo, li facciamo noi; perché noi donne siamo stronze”. 
Così mi ha detto un’amica che ho incontrato stamani al supermercato; non la incrociavo da un paio d’anni e in un quarto d’ora, davanti al bancone dei salumi, ci siamo scambiate il resoconto sintetico delle nostre rispettive rivoluzioni esistenziali.
La vita ferve, in provincia. 

Noi donne siamo stronze, sì. Lo siamo coi maschi, che portiamo a spasso menandoli per il guinzaglio inguinale. Lo siamo con le altre donne, ancora di più, perché questa è una giungla e sopravvive solo quella che non è disposta a soccombere. Quella che il guinzaglio non è disposta a cederlo troppo facilmente; quella che con più protervia riesce a strapparlo dalle mani della rivale, forte del diritto dell’amore, della giovinezza, della libertà, della bellezza. 
La solidarietà femminile è il principio più disatteso in natura, e non c’è niente da fare.
Essere un corpo sodale e compatto era forse possibile ai tempi del matriarcato, ma sono millenni ormai che le amazzoni non si schierano in battaglia. A quel tempo eravamo sorelle, ma l’avvento del patriarcato ci ha rese mogli. Credo. 

Gli uomini fanno massa compatta nella ripetitività dei loro schemi comportamentali; le donne, invece, sono un fronte sminuzzato e diviso; peggio: le donne sono una somma di potentissimi frantumi e ognuna di esse resta sola di fronte alle responsabilità e ai colpi del destino, a una vita coi figli e a una vita senza figli. 
Siamo frammenti, non squadra. Abituate a essere parcellizzate dall’occhio dell’altro, percepite per sineddoche, una parte per il tutto e il tutto intero impossibile da far accettare. Un paio di tette, un bel culo, un bel visino. Una mano santa per rimestare il ragù. Un utero. 
Per questo, io credo, abbiamo sviluppato nei secoli una maggiore disposizione alla famosa resilienza. Che sia un cesto di panni sporchi o una macchia di rossetto sulla sua camicia, noi affrontiamo tutto da sole e da sole soccombiamo o trionfiamo. Con il sostegno delle nostre amiche più strette, è vero. Ma sole anch'esse.  
C’è una mesta bellezza in questa forza solitaria. Mesta perché le storie di noi donne, quelle che ci raccontiamo al telefono o al supermercato o davanti a un aperitivo, sono spesso storie lancinanti e dagli esiti infelici.
Siamo in balia di questi maschi che è così facile dirigere a colpi di feromoni, e così impossibile contenere quando decidono di farci del male. 
Siamo in balia della nostra forza, atavica o individuale; in balia della nostra mancanza di consapevolezza, della nostra mancanza di solidarietà di genere. 
Scopriamo nostro malgrado, nei momenti di difficoltà, di potercela sempre fare. Che il nostro collo sottile non è fatto per spezzarsi da solo. Scopriamo che, nonostante tutto, noi restiamo in piedi. Possono menomarci, sfregiarci, possono toglierci la pelle di dosso ma non ci atterrano, non ci sconfiggono. Possono toglierci la vita e basta. 
Se, invece, ci lasciano semimorte e ammaccate, noi, ogni volta, ci rialziamo e andiamo avanti, tra le quattro mura di casa, in tribunale o in televisione. 
Quelle che soccombono sono state travolte da una violenza naturalmente sovrastante, quindi vigliacca. 
Ad armi pari, noi vinciamo. 
Perché le vere stronze non mollano.
E perché, dopotutto, non tutti gli uomini sono ebeti. 

venerdì 18 novembre 2016

The Danish way


La maggior parte delle mamme che conosco sono come me: mediamente insicure, devotamente empiriche. 
Viviamo dilaniate tra le poche e imponderabili certezze dell’istinto materno e i modelli ideali: l’istinto ci dice sempre cosa fare, ma non abbiamo la forza di carattere necessaria per ascoltarlo; e i modelli ideali sono, appunto, ideali. 
Le mamme indecise arrancano dietro i consigli spassionati delle suocere e i fulgidi esempi delle amiche che ce l’hanno fatta: quelle i cui figli dormono nel proprio letto per tutta la notte dall’età di due mesi, mentre tua figlia, a quattro anni suonati, di notte ce l’hai ancora attaccata al fianco come una cozza verghiana. 
Rispetto a dieci anni fa, quando, se proprio volevi farti del male, andavi a leggerti i blog delle mamme che ce l’hanno fatta, le cose sono peggiorate: adesso sei costretta a confrontare la tua semi-avvilente realtà quotidiana con timeline di Fb infestate da documentati momenti di felicità e realizzazione familiare: le foto postate dalle temibili mamme del profilo accanto. 

In genere, le madri insicure si rifugiano nella manualistica, al cui fascino perverso non ho mai saputo resistere nemmeno io. Ho letto di tutto, applicato qualunque metodo, compreso Fate la nanna di quel sadico para-nazi del dottor Estivill. Il mio manuale preferito era quello che sosteneva che non esistono bambini capricciosi; solo bambini creativi. 
Creativi. 
È stato anche il più inutile. 

Mi sono dunque precipitata a leggere il Metodo danese per crescere bambini felici ed essere genitori sereni non appena ho avuto notizia della sua esistenza in commercio. 
I danesi, a quanto pare, sono il popolo più felice della terra e il motivo risiede nel fatto che sanno allevare felicemente i loro bambini. Vi ricordo che sono anche quelli che hanno inventato i Lego, quindi c’è da fidarsi, perché conosco un sacco di gente che si sente completa e appagata mentre gioca coi mattoncini e costruisce realtà parallele autarchiche. 

Si tratta di un manuale, quindi è di rapida lettura e facile consultazione: i concetti fondamentali sono distribuiti nell’acronimo PARENT, che significa “genitore” (ma non è geniale?) e sta per 

Play (gioco) 
Authenticity (autenticità) 
Reframing (ristrutturazione) 
Empathy (Empatia) 
No ultimatums (Nessun ultimatum) 
Togetherness (intimità e stare insieme) 

a cui corrispondono altrettanti capitoli; e il contenuto di ognuno di questi capitoli è maledettamente convincente e io VOGLIO essere serena e le mie bambine DEVONO essere felici; per cui le due autrici, una mamma americana e una psicologa danese, non possono non aver scritto il manuale che stavo cercando da un decennio, ormai. 

Dunque, ecco come si diventa danesi e felici: 

1) PLAY
Il gioco deve essere libero. I bambini devono essere incoraggiati a giocare da soli e i genitori devono intervenire il meno possibile. Tramite le situazioni di gioco, imparano a gestire l’ansia, diventano resilienti, sperimentano limiti e possibilità. I bambini non vanno trattenuti e non vanno spinti. Quello che invece di solito facciamo è proteggerli a oltranza da ogni stress, salvo cercare poi di costruire dall’esterno la loro sicurezza e autostima, elogiandoli per ogni cacatina di mosca che depositano su un foglio (ma è un disegno bellissimoooo! L’hai fatto tuuu? Ma che bravaaaa!). 
Qui parte l’elenco numerato di cose da fare (1. Spegni la tv. 2. Predisponi un ambiente stimolante e poi vattene. 3. Portali preferibilmente all’aperto, in un luogo sicuro e poi vattene. 4. Falli giocare con bimbi di età diverse (e poi vattene). Etc. 

(Ma è meraviglioso! Miei danesi adorati! Giusto! Sono d’accordo! Devono giocare da soli! Io mi annoio da morire a giocare con le mie bambine. Ecco. L’ho detto. Lapidatemi. Ma non potete! Perché non sono una mamma cialtrona e asociale: sono una mamma danese! Ora che ci penso, le persone che mi hanno cresciuta non giocavano mai con me. E io ricordo lunghissimi pomeriggi densi di gioco, stipati di ore e ore di invenzioni e corse e psicodrammi. La noia, se c’era, faceva da riempitivo. Non so se è stata una palestra di vita: quello che è sicuro, è che io sono una che SA gestire l’ansia). 
(E ho avuto un’infanzia bellissima). 

2) AUTHENTICITY 
Intanto le fiabe. Indovinate di che nazionalità era Andersen? Esatto. E le sue fiabe le avete mai lette ai vostri figli o avete solo lasciato che guardassero quelle carinissime edulcorazioni americane della Disney? Ma lo sapete che fine fa la Sirenetta, nella fiaba originale? Ecco: le vere, antiche, tradizionali, AUTENTICHE fiabe finivano tutte malissimo. 
Dicono le autrici: “Quando si vive un momento difficile, per esempio, sorridere e dire che va tutto bene non è sempre la linea d’azione migliore. Illudere sé stessi è la forma peggiore di inganno ed è un messaggio pericoloso che trasmettiamo ai nostri bambini. Impareranno a fare la stessa cosa”. 
Comunicate serenamente alle vostre figlie che no, Ariel non sposa il principe. 
E questo si ricollega direttamente al “metodo danese della lode”: stracciarsi le vesti per le cacatine di mosca, come dicevamo prima, non si fa. Meglio focalizzarsi sul processo che sul risultato (“Interessante questo soggetto. Come ti è venuto in mente? Come hai realizzato questo fiore? Etc.”). 
I bambini che ricevono lodi sperticate si faranno l’idea (pericolosa) che basti un minimo sforzo per ottenere ottimi risultati; questo significa che, alla prima difficoltà, getteranno la spugna o andranno incontro a grandi frustrazioni, anziché rimboccarsi le maniche e trovare il modo di superare gli ostacoli. 
E siamo di nuovo al punto uno: se li proteggiamo troppo perché pensiamo che da soli non possano farcela, loro, appunto, non ce la faranno. Se la verità fa male, l’alternativa più efficace non è dire bugie. Soprattutto se le bugie le raccontiamo, prima di tutto, a noi stessi. 

3) REFRAMING 
Ristrutturazione o ottimismo realistico. Bisogna concentrarsi sugli aspetti positivi, senza auto-illudersi: “Gli ottimisti realistici non fanno altro che rimuovere mentalmente le informazioni negative non necessarie”. Dagli esempi che fanno le autrici, deduco che si tratti sostanzialmente del vecchio metodo Pollyanna. Vabbè. 
Con i bambini, comunque, la ristrutturazione funziona così: bisogna “spostare la loro attenzione da ciò che pensano di non saper fare a ciò che sanno fare”. Mai usare quello che le autrici chiamano il linguaggio sintetico (“E’ così disordinata”, “Non è molto brava nello sport”, “E’ troppo sensibile”): etichette. 
Le stesse che hanno appiccicato a noi e sulle quali abbiamo imbastito la nostra vita di adulti. “Riflettete: quali sono le cose che pensate di voi, e quante di queste derivano da ciò che vi veniva detto da bambini?”. 

(Ahi. Io me la sono fatta questa domanda. 
Lasciatemi sola coi miei demoni). 

Comunque. I danesi non dicono “Non piangere!” o “Sei cattiva!” o “Non si fa così!” o “Dovresti essere contento!”. I danesi fanno domande, cercano di far riflettere i bambini sul modo e sui motivi per cui sono o agiscono in un certo modo, non danno valutazioni prescrittive e basta. 
Separano il comportamento dal bambino. 

(‘Na parola. Purché, di ristrutturazione in ristrutturazione, non si arrivi al vecchio: “Non esistono bambini capricciosi. Solo bambini creativi”). 

4) EMPATHY
Empatia. Cervello sociale. Il potere delle parole. Il sistema scolastico danese e i programmi danesi che insegnano l’empatia. 
Sì, ma passiamo al punto successivo, che è quello che ci interessa di più. 

5) NO ULTIMATUM 
NO??? Niente minacce? Nessun ricatto? Neanche una garbata avvertenza verbale che state per scatenare l’inferno nelle loro vite se non la smettono di slacciarsi le cinture di sicurezza mentre siete in autostrada? 
Allora, io che sono una madre cialtrona ma illuminata, all’abbiccì ci arrivo. Sculacciate no. E nemmeno: sennò arriva il lupo cattivo. Forse mia madre avrà inserito qua e là un “altrimenti Gesù Bambino piange”, ma tanto le mie figlie non sono battezzate. 
Però i danesi “vedono i bambini buoni per natura” e quindi non hanno bisogno di ricorrere alla minaccia a vuoto. 
Io non sempre ce la faccio. Opto per la minaccia iperbolica e perciò irrealizzabile, così non impegna (“Se non la smetti di picchiare tua sorella sulla testa ti stacco quelle gambette storte che ti ritrovi e poi te le riattacco a contrario”). Di solito si fermano, mi guardano un po’ preoccupate e poi sorridono. E continuano a picchiare la sorella sulla testa. Ma con meno convinzione. 
I danesi non urlano. Io sì, a volte mi scappa, e dopo non mi sento mai meglio. 
I danesi sono fermi ma gentili. Io ci riesco solo se ho dormito dodici ore di fila e sono appena tornata dal parrucchiere. 
“Evitate il braccio di ferro”. 
“La calma genera calma”. 
“Smettete di preoccuparvi di quello che pensano gli altri”. 
E soprattutto: “È davvero importante che i loro vestiti o capelli siano sempre perfetti? (NO. Questa la sapevo) 
“È davvero importante che non indossino un giorno in più quella maglietta di Batman? È davvero importante che finiscano subito tutto quel che c’è nel piatto perché lo avete detto voi? […] Ne vale davvero la pena?”. 
Su, rispondete sinceramente: ne vale sempre, davvero, la pena? 

Meglio concentrarsi sugli “orientamenti di fondo”, sul minimo sindacale, sull’economia di sussistenza. 
Se si fissano su qualcosa, dicono le autrici, distraeteli, spostateli, fateli ridere, offrite un’alternativa (Io, di solito, a questo punto della storia me ne esco con un: “facciamo i pancake?” Con le mie figliole funziona)
Seguono utili consigli pratici per evitare gli ultimatum. 

6) TOGETHERNESS 
Pare che questi splendidi danesi amino riunire periodicamente la famiglia per vivere dei momenti conviviali in armonia e intimità. Pare che faccia bene stare insieme alle persone care, con l’unico scopo di stare bene insieme, resistendo alla tentazione di anteporre i propri problemi o stati d’animo alla buona riuscita del momento collettivo. Rendendosi utili; contribuendo alle incombenze di ordine pratico. Godendosi la condivisione di spazio e tempo comuni. Si cucina insieme, si apparecchia, si mangia, si parla, ci si ascolta. In Danimarca, tutto ciò è talmente importante e radicato, che c’è addirittura un termine specifico per definirlo: si dice “hygge”. 

Sì, cari danesi.

Devo purtroppo fare i conti con una realtà, la mia, che è in genere più distonica e dissonante del garbato contesto nordico in cui tali deliziosi principi vengono in genere applicati. 
Nelle estreme propaggini meridionali del Paese mediterraneo a cui appartengo, quando è ora di mettere in pratica gli ottimi precetti, dobbiamo scendere a patti con la tara atavica del fare male ciò che potrebbe essere fatto meglio. 
Resta che il metodo danese è sicuramente buono: condivisibile, ragionevole, intelligente. Io ho sempre avuto, senza saperlo, idee danesi sull’allevamento dei figli; mi ritrovo, mio malgrado, ad operare con attrezzi forgiati nel Mezzogiorno. 
Mia madre, per dire, se le propongo di fare l’hygge, capisce “frigge” e butta l’olio in padella. Dalle mie parti, infatti, è la frittura che tiene unite le persone durante le adunate conviviali. Ma si sa che il calore porta disordine ed entropia. Il nostro togetherness, come minimo, ti impuzza i vestiti: per questo, nei secoli, siamo diventati irrimediabilmente fatalisti.

Ciononostante, sono convinta che qualche dritta danese faremmo bene a seguirla anche alle nostre latitudini. 


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lunedì 7 novembre 2016

Varvara Nikanorovna

PRIMA AVVERTENZA: questo post contiene spoiler definitivi su tre grandi classici della letteratura mondiale (quelli che si sa come vanno a finire anche se non li hai mai letti): Madame Bovary, Anna Karenina e l’Eneide. Io vi dovevo avvisare che c’è lo spoiler. Fate voi. 
SECONDA AVVERTENZA: questo post non è un pezzo di critica letteraria, benché parli di letteratura. La letteratura è solo un pretesto per considerazioni di carattere più ampio e generico: un modo come un altro per dire stupidaggini dandosi un tono, insomma. Soprattutto non contiene giudizi di valore sulla qualità letteraria dei suddetti capolavori. Ci mancherebbe.

Ho sempre tifato per Anna Karenina; una donna sposata con l’emblema del grigiore e della mediocrità; indomita, quindi adultera. Solo un autore maschio, moralista, bacchettone e sadico poteva farla finire suicida, con le tenere carni bianche - che tanto avevano goduto tra le braccia del conte Vronskj – ridotte a brandelli da un treno in corsa e sparse tra le rotaie. 

D’altra parte, a Emma Bovary non è andata meglio: muore fra atroci tormenti dopo aver ingerito un veleno letale ma non istantaneo (rileggersi la lunga, interminabile scena della sua agonia. Dura parecchie ore e parecchie pagine). Figurarsi se il caro Gustave non gliela faceva pagare, a questa donnetta credulona e un po’ vanesia, per aver inseguito la felicità sbagliando strada. 
In questi romanzi, nemmeno i personaggi maschili fanno una gran bella figura ma, almeno, portano a casa la pelle. 

E vogliamo parlare della povera Didone, che si trafigge con la spada regalatale dal troiano fatale, mentre lui salpa verso il Destino? 

Mi chiedo se esiste un romanzo, scritto da un uomo, in cui il marito fedifrago venga punito con altrettanto accanimento narrativo. Mi pare di no. Forse bisogna essere dei sadici moralisti misogini per scrivere capolavori immortali con grandi figure femminili, rigorosamente moriture e sfigate. 

Oppure si può essere Jane Austen. 
Ecco, Jane Austen, le cui eroine non erano per niente sfortunate in amore e alle quali, alla fine, le cose girano pure benino (Darcy. Oh, Darcy). 

Solo che gli uomini, a differenza delle donne, non leggono Jane Austen. 
Le protagoniste dei classici più letti dagli uomini in genere ci lasciano le penne, dopo aver soddisfatto il regale augello del protagonista maschile di turno. 

Queste trame letterarie sembrano voler mandare un messaggio, a noi uomini e donne che leggiamo i classici. Ma quale? E questo messaggio classico ha qualcosa a che fare con i rapporti tra uomo e donna nell’età contemporanea? 
Mi interrogo. Un po’ mi incavolo, perché secondo me tutto ha a che fare con i rapporti tra uomo e donna etc etc. 

Quanti di voi conoscono un romanzo russo scritto da un uomo che si chiamava Nikolaj Leskov? 
Oh prode, acuto, profondissimo Leskov, che hai raccontato con lieve potenza la storia della indimenticabile principessa Varvara Nikanorovna! Caro Leskov, scoperta tardiva, non smetterò mai di ringraziarti per aver creato una figura femminile sublime, forte, che non si piega, anche se deve accettare di veder sparire un mondo, il suo, nel quale si incarna la vera anima russa, lo spirito della tradizione e della rettitudine.
Pensate un po’: una donna che rimane vedova di un marito amato, che rifiuta di risposarsi, che governa e amministra meglio di un uomo i beni della grande famiglia dei Protozanov, che non cede alle lusinghe di un furbo pretendente, che cresce da sola tre figli e si circonda di figure improbabili come il meraviglioso Don Chisciotte Rogožin, impresentabile ma “con un cuore e una coscienza” e di fedeli servitori, devoti e leali. 

Fa bene, ogni tanto, leggere la storia di una donna che non perisce dopo aver compiuto scelte sbagliate in amore; che non paga con la propria vita la colpa di aver avuto a che fare con un mentecatto. 
Una donna in grado di discernere e di giudicare l’indole di chi ha di fronte e comportarsi di conseguenza; dotata di un alto senso della giustizia che le fa prendere sempre la decisione più equa, quasi mai la più facile. 
Dà speranza. 

Riporto qui un passo paradigmatico: in senso stretto, perché illustra a dovere la tempra della protagonista e in senso lato perché, a voler prendere ad esempio il suo modo di esercitare la difficile arte del regolarsi tra dare e avere, si potrebbero evitare un sacco di errori. 

 “Non aveva debiti con nessuno, e ben pochi potevano dire di non averne con lei. […] Chiunque, nobile o mercante, in caso di necessità poteva rivolgersi a lei e chiederle dei prestiti. Il grado di solvibilità del debitore lo stabiliva lei stessa, a seconda dell’opinione che si faceva di lui […]. I rifiuti erano rari; ma a colui che, avendo ottenuto dei soldi, non li restituiva a tempo debito (né veniva a chiedere una dilazione), la principessa mandava a dire: «Che non si preoccupi; su di lui ho messo una croce»”. 

E non gli concedeva mai una seconda possibilità, perché, semplicemente, non se la meritava.

Ragazze, impariamo da Varvara Nikaronovna a mettere una croce sopra qualcuno, quando quel qualcuno si dimostra inaffidabile.
È l'unica cosa sensata da fare.  

(Nikolaj Leskov, Una famiglia decaduta, Fazi Editore.)