mercoledì 28 agosto 2019

Razzismo buonista

Mi è capitato di avere pensieri razzisti, in questi ultimi tempi.
Accanto all'ingresso del mio palazzo, c'è un portico che viene abitualmente usato dai senzatetto come luogo di riparo per la notte, in tutte le stagioni. Fra questi senzatetto, ce n'è uno fisso. Si chiama Rhal, è un giovane bengalese coi capelli lunghi. Quando torniamo da scuola, io e le mie figlie lo troviamo sotto casa; ci saluta sempre e ogni tanto mi chiede una sigaretta. A volte gliela offro direttamente io ma non è detto che lui l'accetti; se ne ha già di sue, mi dice “no, grazie”: non fa scorta a mie spese.
Non gli ho mai dato soldi, né lui ne ha mai chiesti. A Natale volevo regalargli dei maglioni ancora nuovi, con lo scontrino attaccato. Non li ha voluti, mi ha detto di darli ad un altro senzatetto che dormiva di fianco. Prende solo quello che serve, Rhal, e ogni tanto è lui a offrire qualcosa; si sporge dalla ringhiera con un sacchetto in mano e chiede a mia figlia “Piccolina, ne vuoi un po'”? E sono noccioline o salatini, di cui sembra essere ghiotto. A lei non piacciono le noccioline ma io gliele faccio prendere, anche se poi non le mangia, per fare contento Rhal.
Certo, a una radical chic buonista come me fa comodo avere un Rhal sotto casa, così posso sentirmi tollerante, al costo di qualche sigaretta.
Quando entro nel cortile del mio palazzo, invece, mi capita di incrociare anziani condomini romani che, in questi due anni, non hanno mai risposto al mio saluto e a quello delle mie bambine. Uno di questi vecchietti, che probabilmente ha vissuto male e troppo a lungo, un pomeriggio, da dietro una finestra socchiusa, ha lanciato un uovo addosso ai bambini che giocavano in cortile. Che le loro madri se li portino al parco, ha detto al portiere.
Confesso che, in certi momenti, ho sognato che questi malefici vecchietti senza più permesso di soggiorno tra gli esseri umani venissero tutti rinchiusi in centri di prima accoglienza. Solo i vecchi romani, però; perché in dodici anni di vita in Veneto, io di gente così non ne ho mai incontrata: lì gli anziani sorridono alle mamme coi bambini.
Quest'inverno, sempre a Roma, mentre tornavo a casa in bici dopo un consiglio di classe, all'altezza di Porta Maggiore la sciarpa mi si è impigliata nella catena e la bici si è bloccata. Ero accanto ad una fermata del tram e subito mi si è avvicinato un signore, un vecchio straniero, curdo forse, che aspettava il 14. Ha capovolto la bici e, con grande pazienza, ha liberato la catena, sporcandosi le mani di grasso. Nel frattempo il suo tram è passato e lui lo ha perso. L'ho ringraziato e sono corsa via e, mentre mi affrettavo verso casa, ho pensato con rammarico che non gli avevo nemmeno chiesto come si chiamava, che non mi ero presentata: la gentilezza deve avere un nome, la gratitudine pure.
E mi sono ricordata di una cosa che mi era successa l'anno prima, appena arrivata in questa città così grande e cinica; ero andata dal ferramenta per comprare degli attrezzi che mi servivano ad aggiustare la bici. Fuori dal negozio, dopo aver armeggiato inutilmente nel tentativo disperato di montare il seggiolino, vengo soccorsa da un pensionato romano, che se ne stava lì a osservare la scena. Il vecchiarello riesce con non poca fatica a montare il seggiolino e io resto incantata da tanta disinteressata cortesia. “Grazie! È stato così gentile da parte sua!” gli dico, grata, “Non so proprio come sdebitarmi!”.
“Con cinque euro”, mi fa lui.
Ora, sarebbe facile giungere a conclusioni errate. Fortunatamente, però, noi buonisti della prima ora sappiamo evitare le generalizzazioni razziste.
In questo mi aiutano i vecchietti che giocano a carte da Necci, il bar dove vado a fare colazione la mattina, prima di andare a scuola, e a preparare le lezioni quando non ho le prime ore. Loro fanno le partite a briscola al tavolo vicino, io leggo e prendo appunti. All'inizio salutavano e basta. Adesso si avvicinano e mi porgono il giornale, dopo averlo letto. “Che lezione prepariamo oggi, professoressa?”, si informano ogni volta, con cavalleresco interesse.
Questi vecchietti sono miei amici, sono romani, sono gentili.
Come Rhal e il vecchio curdo che mi ha aggiustato la bici, perdendo il suo tram.
Menomale che il mio sogno sui centri di accoglienza non si è avverato.

Mensa scolastica

Quando, qualche giorno fa, ho presentato ai miei alunni di quinta liceo una lista di romanzi della letteratura russa, inglese e francese dell'Ottocento, da leggere entro Natale, c'è stato un inaspettato ammutinamento. 
"Sono troppi, prof"!"Vi chiedo di sceglierne uno, non dovete leggerli tutti"."Ma un romanzo intero, prof, è troppo. Noi dobbiamo anche vivere!", mi ha detto un'alunna, risentita. Vorrei poterla convincere che la lettura non esclude la vita. Ma non so trovare le parole, perché io non la capisco. Vorrei dirle: ma io leggo come respiro. Come si fa a vivere senza respirare? Tu come puoi vivere senza leggere?E lei, a quel punto, non capirebbe me. Vorrei avere la credibilità per dirle: vivi, adesso, vivi senza leggere ma, fra un po' di tempo, la sola vita non ti basterà ad affrontare gli anni, i problemi, il dolore, l'abbandono, e nemmeno il passaggio della felicità che, com'è sua costituzione, non dura. Vorrei dirle che la vita non basta ad affrontare la vita. I libri non garantiscono il successo e non aggiogano la felicità, è vero. Eppure, senza di essi, l'infelicità è più densa. Lo vedo succedere attorno a me, in continuazione. Vedo che l'amore non basta, la famiglia non colma, il lavoro non può possederci completamente, la fede non è di tutti. Gli amici aiutano. Come i libri. Non dico di sostituire le persone con la letteratura. Dico che la ricchezza è scudo contro i colpi del destino; la ricchezza intesa come umanità, come intelligenza del cuore. E leggere rende l'uomo più uomo; non scava solo dentro, come le esperienze, ma aggiunge, riempie, offre lo scudo per difendersi, le armi per attaccare il pregiudizio e la disumanità. Le persone più infelici che ho conosciuto non leggono. Le più vuote, le più disarmate. Le più disperate. Per questo, quando gli alunni dicono che non possono leggere perché devono vivere, più che farmi arrabbiare, mi preoccupano. Temo per loro: li vedo follemente determinati ad arrampicarsi a mani nude lungo una parete liscia, senza una corda, senza scarponi chiodati, senza puntelli a cui aggrapparsi nella salita. Li vedo che guardano in alto, sprezzanti di me e del pericolo, sicuri che la forza che hanno basterà a raggiungere la cima o che la roccia offrirà sempre un appiglio insperato. Ma so che, prima o poi, guarderanno giù. E quello che vedranno sotto di sé, irrecuperabile, precipitato, li spaventerà a morte, come ha spaventato e continua a spaventare ognuno di noi. A mani nude dovranno continuare a salire o fermarsi ed aspettare. Ed è una follia non essersi muniti prima di qualcosa che aiuti a dare un senso all'abisso. È spaventoso che nessuno degli adulti dica loro che quel percorso a senso unico fa tremare soprattutto chi è solo, chi è senza parole perché non ha conosciuto altre vite all'infuori della propria o di pochi altri prossimi.La lettura, la musica, il cinema, il teatro, l'arte, la danza, la matematica, le scienze non fanno altro che raccontare storie. Altre storie: le storie degli altri. Gli altri e le loro storie sono ciò di cui abbiamo bisogno per affrontare quella salita, che altrimenti dovremmo portare a termine da soli. E visto che si è soli quando si entra in questa vita e quando se ne esce - e quando si compiono delle scelte - perché condannarsi alla solitudine anche durante quel tragitto così impervio? La lettura ci rende umani, dicevo. Conoscere la storia degli altri ci aiuta a non abbandonarli, a non respingerli: a com-prenderli. Più leggo, più comprendo, più accolgo, più contengo. Mi fa paura chi non legge, così come mi fa paura chi non comprende altro che la propria storia. Mi fa paura chi dice: prima la mia storia. Prima devo vivere. Se non hai il tempo di far entrare nemmeno un libro, nella tua vita, per chi o cosa ci sarà spazio, che non sia tu o un'emanazione di te? Per questo sono grata a chi legge. Per questo leggo. La parola “alunno” viene dal verbo latino “alo”, che significa “nutro”. Gli “alumni” erano i bambini nutriti e allevati da qualcuno che non fosse il padre o la madre. Bambini di altri, allevati da altri. Come facciamo noi insegnanti con i nostri “alumni”: a disposizione abbiamo non il “pan de li angeli”, ma il pane degli uomini, le storie di tutti noi e del nostro mondo. Nessuno deve essere escluso da quella mensa.