venerdì 17 aprile 2015

Cantami o Diva

Qualche anno fa, quando li interrogavi, non riuscivano a portare a termine il discorso: iniziavano spavaldi e sicuri con un nome e una data, illudendoti - ma solo per poco - che la Storia fosse ai loro piedi, oltre che nella loro testa. Poi la mente si smarriva, le parole si diradavano, cominciavano i sospiri e infine, con la bocca aperta, giungeva il silenzio. 
- E poi? – incalzavo io, fiduciosa. 
Silenzio. E sguardo sgranato, labbra serrate, incredulità. 
- Ma io la sapevo, prof. 
- E allora dilla. 
Silenzio. 
Adesso, è peggio. Non sanno nemmeno cominciare. Dicono: “allora” o “quindi”, saltellano su un piede, provano a mettere le mani da qualche parte - in genere in tasca, a volte nel naso. E poi stanno zitti.

Eccoli qui, i miei alunni di oggi: inesorabilmente diretti verso l’afasia. 
Eppure io la storia gliel’ho raccontata, come se fossero dei bimbi da mettere a nanna. Rossa in viso e con il fiato corto, ho domato per loro parole, nomi e date; con gli scarabocchi alla lavagna, che hanno copiato diligentemente, ho cercato di chiarire sequenze, conseguenze, legami logici, inferenze. Ho puntellato la mia lezione di gessetti che si spezzano mentre scrivo con veemenza, di cancellini che mi saltano puntuali dalle mani entusiaste, di baffi di gesso che mi restano sulle guance dopo che mi sono grattata. Di perentori: “E’ chiaro?”, “Avete capito”, “Ci siamo, fin qui”? E i loro occhi attenti, i commenti sussurrati; c’è chi sta ritagliando un foglio di carta, chi gioca con la calcolatrice. Ma mi ascoltano, hanno capito. Non è poi così difficile, la Storia. 

Perché allora, quando li interrogo, loro quella stessa Storia non me la sanno raccontare? Perché non sono in grado di iniziare e finire un discorso, con un capo e una coda e pure un ventre da riempire di idee, intuizioni, collegamenti? Perché i miei alunni non parlano? 
- Perché i vostri figli non parlano? – ho iniziato a chiedere ai genitori, durante i colloqui. 
- Perché non studiano.
- Sono timidi. 
- Perché si mandano messaggi su Whatsapp; non si raccontano le cose, si mostrano i messaggi. 
“Guarda cosa gli ho scritto. Guarda cosa mi ha risposto”. Si parlano con i selfie. 

È così semplice? Non parlano perché non ne hanno più bisogno? Perché guardano immagini, mostrano immagini, scrivono frasi brevi? Perché non devono sforzarsi di rendere esplicito il pensiero con le parole - tanto basta aggiungere una faccina triste o allegra, come una cornicetta che diventa più importante del centro della tela? Non parlano e basta, o non parlano con me, con noi adulti? 

Mia figlia, quarta elementare, mi chiede di aiutarla con la Storia. I Fenici. 
- Spiegami cosa c’è scritto nel libro. 
- No, mamma. Mi devi fare delle domande. 
- Perché non mi racconti tu di questi Fenici? 
- Ma la maestra mi fa delle domande e io devo sapere rispondere. Fammi delle domande. 

Ecco cos’è. 
È cominciata così: non si chiede più loro di raccontare. Rispondono a delle domande. Mettono crocette negli spazi appositi, scelgono tra vero o falso, collegano i termini con le frecce. Aggiungono parole mancanti scegliendole da una lista. Fill the blank, come negli esercizi di inglese: riempi lo spazio vuoto. Piccoli spazi vuoti da riempire con piccole parole. Non troppo grandi gli spazi, altrimenti si perdono. 
I miei alunni non costruiscono, non narrano, non fanno e non disfano. Riempiono uno spazio vuoto, diligenti, precisi, micidiali. 
Una volta riempito lo spazio, non ne resta per i discorsi, i ragionamenti, i racconti. 
Imparano lo stesso? Sembra di sì. Le verifiche strutturate sono la loro delizia. I più bravi funzionano come dei calcolatori elettronici, non sbagliano nulla. Io, al loro posto, qualche errore l’avrei commesso. 

Heinz von Foerster ha fatto notare come l’interazione scolastica si basi sulle cosiddette "domande illegittime", poiché di esse, colui che interroga, conosce già la risposta. Le vere domande, quelle "legittime", poste per ottenere una risposta non nota in partenza, sono bandite da questo sistema. Quanto più l’alunno sa fornire risposte scontate (giuste), tanto più sarà prevedibile e valutabile. Tanto più sarà banale. 

Raccontare, invece, significa avere una voce e delle idee. Narrare implica assumersi una responsabilità, decidere, scegliere cosa dire e come. Significa, anche, crescere: non sono più un bambino, perché la Storia, ormai, me la racconto da me. 

Adesso, quindi, solo domande e risposte. E l’afasia. Poi il silenzio, seguito,  a volte, dalle lacrime dei più sensibili davanti alla madre di tutte le ingiustizie: “Ma io ho studiato”, singhiozzano sconsolati, al termine di una scena muta. 


Nei corsi di formazione, spiegano che sarebbe opportuno dismettere il vecchio e intimidatorio termine “interrogazione” - che ricorda troppo “interrogatorio” - per sostituirlo con un più morbido “intervista”. 

- Rossi, interrogato! 
No, così lo turbi. 
- Rossi, intervistato! 

In tal modo, secondo le nuovissime indicazioni psico-pedagogiche, Rossi è libero di riempire gli spazi vuoti con più agio e serenità. Interrogazione o intervista, però, quando tocca a lui raccontare, ti risponde con un silenzio perfetto. 
Quando va bene. 

- Rossi, chi era il re Sole? 
- Luigi XIV. Detto il re Sole, perché credeva nel Dio Sole.