Al Comune di Roccalumera si conoscono tutti. Per questo, l’impiegata che mi accoglie sull’uscio della portineria mi chiede per prima cosa chi sono e da dove vengo. Vorrebbe dettagli sulle mie ascendenze dirette e indirette, probabilmente per capire qual è l’ufficio del parente prossimo in cui mi deve smistare. Io però ho una missione precisa da compiere, per il bene della comunità: non sono venuta per ottenere un favore personale - anche se forse per loro è lo stesso: si dice che, a queste latitudini, i servizi erogati dai Comuni siano tutti dei favori personali.
- Potrebbe cortesemente dirmi a chi posso segnalare lo stato increscioso in cui si trova l’arredo urbano del lungomare?
L’impiegata, da curiosa, si fa improvvisamente ilare.
- Ah ah ah ah! Ha tempo da perdere?
- Sì. Sono in vacanza.
- Non saprei con chi farla parlare.
- Il sindaco?
Lo so che il sindaco, in questi casi, è circondato da un cordone sanitario per tenere a debita distanza le rompiscatole stagionali come me; ma mi piace farla ridere, quest’impiegata. Chissà come si annoia, di solito.
- Ah ah ah ah! Il sindaco qui non viene mai. Sa, è un medico: è occupato nel suo studio coi pazienti.
- Ah. E che faccio allora? Lo cerco nel suo studio e vedo se mi riceve tra un paziente e l’altro?
L’impiegata è colpita dall’originalità della mia idea.
- Ma lo sa che forse potrebbe funzionare?
- Ormai che sono qui, però, potrei provare a parlare con qualcun altro. Un assessore all’Urbanistica? Un segretario? Un vicesindaco?
- Ah ah ah ah! Allora ha veramente tanto tempo da perdere! Carmelo, con chi potremmo farla parlare questa ragazza?
Carmelo è un dipendente comunale di passaggio in corridoio; si assume la responsabilità di guidarmi fino all’Ufficio Tecnico.
L’impiegato che mi riceve è un signore serio e abbronzato.
Mi ascolta, all’inizio diffidente, poi via via più sollevato. È evidente che l’enormità della mia richiesta fa di me una grana passeggera e inoffensiva.
- La scaletta che porta in spiaggia è arrugginita e pericolante – spiego infervorata - l’ultimo scalino dista dalla sabbia mezzo metro: i bambini e gli anziani salgono e scendono con difficoltà.
- Ma non c’è la pedana di legno sotto la scaletta?
- Vuole dire quelle assi mezze marce inchiodate alla buona e ormai ridotte a un tappeto scheggiato?
- Le usiamo solo da tre anni – risponde lui, ferito.
- Sì, la pedana c’è; e pure il dislivello. Non potevate, come gli altri anni, far passare il bobcat per spianare la spiaggia e colmare il vuoto? Non dico di sostituire la pedana o far ridipingere la scaletta arrugginita…
Adesso l’impiegato è ferito e indispettito. Tira un fatalistico sospiro e mi guarda come se io fossi il cavaliere Chevalley e lui il principe di Salina sul punto di spiegarmi i mali atavici di una Sicilia mitica e irredimibile. Invece se ne esce con un’affermazione piena di dolore.
- Signora, c’è il mare.
- Il mare.
- Sì. Il mare, anziché portare la sabbia, si mangia la spiaggia. Quando io ero bambino, la spiaggia era lunga, lunga, lunga. Ora è la metà. E poi i bobcat non sono del Comune. Bisogna chiamare una ditta.
In effetti, siamo sulla Riviera Jonica. Come prevedere l’azione erosiva del mare? Il mare, questa belva indomabile e infida contro cui nulla può l’uomo. Il mare è padrone, il mare è crudele.
Io però sono testarda come un piemontese dell’Ottocento e razionale come un esponente dell’Illuminismo lombardo. Provo ad andare di logica.
- Mi scusi: questa è una località balneare; avete un anno di tempo per prepararvi alla stagione turistica: non potevate rendere l’accesso agibile? Non potevate fare in modo che i turisti trovassero non dico un lungomare elegante, ma almeno decoroso?
L’accenno al decoro lo turba. Mi fissa in silenzio per un secondo; sembra sul punto di dirmi qualcosa, poi si arrende.
- Signora, qui non c’è la mentalità, per queste cose.
La mentalità. Ha detto proprio “mentalità”.
- Non è questione di mentalità; è questione di dignità. E di efficienza. Ma non vi vergognate ad accogliere così i turisti? Pensate che vedano solo il mare e lo Stretto, che non vedano la ruggine e le tavole marce che voi chiamate passerelle? E se qualcuno si fa male?
- Certo – abbozza – qualche cosetta in effetti si potrebbe fare. Dove ha detto che scende lei al mare?
- All’altezza di via Casazza.
Prende nota su un post-it giallo.
- Vedrò cosa si può fare. Forse gli operai, manualmente, possono spostare un po’ di sabbia sotto la scaletta.
Poi, temendo di essersi spinto troppo oltre, mi avverte:
- Però non le prometto niente.
- E io vorrei poterle dire che non mi aspetto niente. Invece non è così: io penso che dovreste fare qualcosa.
Mi alzo per accomiatarmi. Lui tiene una penna con l’indice e il pollice di entrambe le mani e la misura con lo sguardo.
- Però – dice sommessamente – il lungomare di Roccalumera non è poi così brutto. Che gli manca? Si potrebbe sistemare con poco.
Parlando ha alzato lo sguardo: mite, speranzoso, fiducioso. So cosa vuole che io dica.
- No, non è poi così brutto. Basterebbe veramente poco. Ma non c’è la mentalità.
Me ne vado. Prima di uscire mi guardo attorno: stanze e piani di questo municipio sono percorsi da cinquanta-sessantenni che sanno perfettamente qual è il loro compito: non fare nulla, e vi si attengono con scrupolo. Questo è un luogo senza costrutto e senza scopo.
Mentre scendo in spiaggia sulla scaletta arrugginita e faccio un saltello sul tavolaccio traballante, mi dico che il buon vecchio Tomasi non aveva capito proprio nulla. Il fatalismo non c’entra niente con i siciliani. Perché concepire il Fato presuppone la capacità di alzare la testa e vedere un domani, che si sa già scritto.
Ma questo è un popolo che tiene la testa bassa e del domani se ne fotte.
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