sabato 16 maggio 2015

Ahi quanto a dir QUAL'ERA è cosa dura

Se sei una prof d’italiano, almeno una volta nella vita avrai pronunciato la frase “Perché chi scrive male pensa male!”, con tono stancamente apocalittico e un occhio fuori dall’orbita - in genere quello che è ti caduto sull’ennesimo errore di ortografia di un alunno.
Quel che avresti voluto veramente fare sarebbe stato schiaffeggiarlo, l'alunno, per completare la citazione morettiana e rendere più efficace la comunicazione didattica.



Purtroppo, più o meno dai tempi del plagosus maestro Orbilio, che prendeva a vergate il piccolo Quinto Orazio Flacco per fargli imparare a memoria i saturni di Livio Andronico, questi metodi didattici non sono più in voga. 
Adesso vanno per la maggiore il peer tutoring e il learning by doing che contemplano, sì, l’uso del linguaggio non verbale, ma solo se non lascia segni sull’allievo. 

(Piccola digressione: se Orbilio non avesse fatto ricorso alla verga, Orazio avrebbe comunque scritto le Satire? E se gli avesse fatto leggere e analizzare l’ostica Odusia in cooperative learning, le Epistole oraziane avrebbero avuto destinatari diversi? Il dubbio mi tormenta). 

Temo che picchiarli, comunque, non servirebbe a nulla, perché forse non pensano e, se pensano, pensano senza punteggiatura. 
E non solo i tuoi alunni. Anche gli adulti sbagliano e, se fino a qualche tempo fa lo facevano nell’intimità delle loro lettere vergate a mano, adesso violentano punteggiatura e ortografia sulla tua pagina Facebook. 
Tutti hanno il diritto di sbagliare, sembra, e lasciare che l’errore sia amplificato dal megafono virtuale, diventando democratico e trasversale. E condiviso. 

Arriverà, lo so, l’amico linguista permissivo dell’ultima ora a far notare che la lingua è il risultato di una convenzione sociale, il prodotto dell’atto linguistico di una comunità di parlanti che hanno il diritto di modificare gli usi e le regole, in base alla tendenza dominante. 
L’uso forma la regola. 
Ma se la comunità linguistica le regole le conoscesse e le rispettasse, il buon vecchio uso non dovrebbe necessariamente modificarsi secondo le abitudini dei peggiori. E sarebbe poi così brutto? 

Se la forma è sostanza e tu ci credi, non puoi arrenderti davanti alla generale refrattarietà alla correttezza. Bisogna fare qualcosa. 
La faccio: 

Piccolo promemoria per frequentatori attivi di social network 

1) Il Po è un fiume. 
2) Un po’ è giusto. 
3) Un è cacca. Letame. Escremento. Preferirei che mi defecaste direttamente sul monitor, piuttosto che costringermi a leggere i vostri commenti pieni di pò. 
Pòpò, appunto. 
4) Qual’è, qual’era. Orrore, raccapriccio, scoramento. Qual è, qual era. Senza apostrofo. Non vi viene naturale? L’apostrofo vi scappa? Me ne frego. Trattenetevi: è buona creanza. 
5) L’aldilà (tutto attaccato) ci aspetta tutti, professori e alunni, morettiani e anti-morettiani; e questo al di là (tutto staccato) del fatto che sappiate come si scrive. 
6) Fa non si accenta. Fu nemmeno. , sì (e anche il – particella affermativa - per distinguerlo dal si riflessivo). Fa’, con l’apostrofo, sta per “fai”, imperativo. (Es. “Muttley, fa’ qualcosa!”). C’è anche un motivo per tutto questo, ma non importa. Atto di fede. Credere e non farsi domande. 
7) Stò, stà, , manco a dirlo, ve li siete inventati voi: in natura, non esistono. 
8) Voi non potete mettere la virgola dopo il soggetto, prima del verbo o prima di un complemento, se non ci sono incisi da isolare. 
Voi, non potete, mettere, la virgola. 
Chiaro, no? E non fatelo, allora! 
9) Dopo i verbi come pensare, ritenere, credere, sarebbe una prova di grande modestia far seguire il congiuntivo. Così, giusto per mettere in dubbio la validità universale della vostra opinione. Quello che pensate o ritenete voi dovrebbe conservare un mite valore soggettivo. Con un bel congiuntivo, “io penso che voi dobbiate saper usare correttamente la vostra lingua madre” suona meno dittatoriale. 
Penso che dobbiate.