domenica 6 marzo 2016

Furor uterino

La parola “utero” viene dal latino uterus, che, a sua volta, è imparentato con uter, utris: otre. L’utero e l’otre condividono quindi la forma linguistica e quella reale, poiché entrambi sono recipienti di tessuto organico dotati di un’apertura. Hanno in comune anche la funzione di contenitori: l’uno per la vita umana, l’altro per l’acqua, necessaria alla prima. Due oggetti preziosi, insomma. 
L’utero, però, a differenza dell’otre, oltre a essere un contenitore, è anche un contenuto: si trova cioè dentro le donne. E qui le cose si complicano, perché chi dice donna dice danno. 
Così come l’oggetto-utero è contenuto nella donna, il nome-utero (stavolta in greco) si trova inglobato dentro un altro nome, un nome usato per definire un disagio psichico tipicamente femminile: il termine isteria, infatti, viene dal greco hystera, che significa utero. 
Già noto al tempo degli antichi egizi, questo malessere venne indagato anche dalla medicina classica: si riteneva che, quando le donne si comportavano in modo strano, la causa fosse da ricercare nella posizione o nelle condizioni del loro utero. Da cui la parola “isteriche”. 
Ippocrate e Galeno ne erano abbastanza certi e avevano indicato una serie di rimedi infallibili per rimettere gli uteri fuori posto delle scalmanate nella giusta posizione; le loro approssimative conoscenze anatomiche li rendevano sicuri che, quando l’utero si spostava troppo in alto, poteva addirittura arrivare a toccare la testa e questo comportava bizzarre conseguenze sull’umore e il comportamento della malcapitata (l’equivalente femminile, direi, del concetto di “testa di cazzo”; non sembra però che la medicina storica si sia dedicata alla soluzione di questo problema tipicamente maschile con la stessa indefessa caparbietà con cui ha cercato di riposizionare gli uteri; probabilmente perché coloro che ne erano affetti – molti medici, tra di questi – non possedevano un utero). 
Ad ogni modo, collassi, paralisi, convulsioni e stati catalettici erano tutti sintomi riconducibili all’isteria e venivano curati nel modo più consono e fantasioso: fumigazioni pestilenziali, purghe, bagni bollenti, impacchi di varie sostanze aromatiche. Si consigliava di starnutire, per fare scendere l’utero peregrino, oppure di ricorrere al matrimonio: nel caso delle fanciulle isteriche, infatti, si riteneva che l’astinenza sessuale fosse la causa principale degli attacchi di malumore eccessivamente teatrale o di nevrosi parossistica che erano catalogati col nome di isteria. Insomma, con uno starnuto ben assestato o due colpi di pisello, il problema poteva essere risolto. 
Durante il medioevo, la morale cristiana non mancò di aggiornare le nozioni mediche relative a questo disturbo: isterica, epilettica o anche semplicemente strana, diventarono sinonimi di “strega”. La cura, in quel caso, passava per l’acqua o per il fuoco: con un bel rogo o tramite l’annegamento, gli attacchi di isteria delle femmine trovarono un rimedio un po’ più radicale dei decotti classici, ma senza dubbio definitivo.
Nel Cinquecento, la ricerca medica si arricchì del contributo di un certo Ambroise Paré, medico di corte, il quale ideò una cura di strabiliante intelligenza e raffinatezza: “faceva porre la paziente sulla schiena, gridava il suo nome più volte e ne afferrava violentemente i peli pubici (sia per provarne l'insensibilità cutanea sia “affinché il pungente e maligno vapore che sale possa essere riportato verso il basso”
Aveva fatto sicuramente meglio il suo collega e coevo François Rabelais (sì, proprio quello del Gargantua et Pantagruel); Rabelais individuò la soluzione a mio avviso più efficace: fu il primo a riconoscere l’origine psicologica del brutto male muliebre e consigliava infatti alle donne isteriche di distrarsi con piacevoli attività che tenessero occupata la mente. Lui non lo sapeva ancora, ma aveva aperto la strada allo shopping terapeutico come antidoto alla nevrosi. 
Sacrale nell’antichità, satanica nel medioevo, questa malattia direttamente riconducibile al possesso di un utero era comunque collocata nella sfera extra-corporea. Fu necessario aspettare il progresso scientifico del Settecento e dell’Ottocento per riportare sintomi e cause dell’isteria nel corretto ambito fisiologico. Il buon Freud, all’inizio del Novecento, avrebbe fatto il resto. 

E veniamo ai nostri giorni. L’utero, ci avevano illuso le nostre nonne combattive, è nostro e ce lo gestiamo noi. Contraccettivi, aborto legalizzato, divorzio, fecondazione assistita, eterologa…quanta strada abbiamo fatto, da quando tutto ciò che concerneva la nostra vita sessuale, le nostre facoltà riproduttive e la fisiologia femminile veniva puntigliosamente sottratto al nostro controllo per essere codificato, regolato, definito e giudicato dai nostri tutori dotati di scroto. 
Fino a oggi. Fino all’utero in affitto. Quando c’è di mezzo questo sacchettino di carne, gli animi si riscaldano: l’isterismo – collettivo, stavolta, non più solo femminile – è stato risvegliato dal dibattito sulla maternità surrogata, collegata alle adozioni gay. Giornali, tv, Parlamento e bacheche social sono state prese d’assalto da chi si scaglia istericamente contro l’indegna libertà di mettere a disposizione il proprio utero per portare a termine una gravidanza conto terzi, senza poi passare il resto della propria vita ad allevare l’inquilino in affitto. 
Abominio, infamia, indegnità, sub-umanità. 
Ora, sono temi delicati, lo so. Delicati quanto la vita, l’amore, la libertà, l’innocenza. 
Io, per tre volte, ho dato in comodato d’uso gratuito il mio utero per far nascere le mie figlie, che lo hanno usato per fare qualche mese di capriole e adesso me le ritrovo in giro per casa. Il mio utero non lo darei mai in affitto, perché per me sarebbe troppo faticoso, sia fisicamente che emotivamente: non riuscirei a farlo né per soldi, né per generosità. Ma non ho le idee così chiare su cosa debbano fare le altre. 
Penso che, in uno Stato in cui si è legalmente libere di decidere di non portare a termine una gravidanza o di abbandonare anonimamente in ospedale un figlio che non si desidera (o non si può) crescere, non sarebbe poi così abominevole se si decidesse di regolamentare questa nuova pratica, di renderla legale mediante la codificazione di un iter che tuteli tutte le parti in causa (almeno tre) e limiti gli abusi. 
Vietare l’utero in affitto in Italia è solo una questione di principio, non di buon senso, né una soluzione del problema. Questa è solo l’opinione di un’umile detentrice di utero. 
Un otre, se volete. Ma un otre, ricordatevi, pieno o vuoto, resta sempre un otre. E una donna, con l’utero pieno o vuoto, resta sempre una donna. 
Per fare una madre, ci vuole altro.