domenica 21 dicembre 2014

L'ora di sostegno

Badr (nome di fantasia): 17 anni, marocchino, erre moscia, lievissimo ritardo mentale; scarsa capacità di concentrazione, motivazione inesistente allo studio, esuberanza ormonale nella norma, grande desiderio di affetto.

- Questa cos’è, prof, la sua agenda? “M” per cosa sta, mestruazioni? E non si arrabbi! Lo so: non è carino prendere le cose degli altri senza permesso. Soprattutto i diari delle ragazze, dice? Quali diari? Le ragazze oggi non hanno i diari. Sono cose dei suoi tempi, nessuno ormai lascia compiti per casa! I diari non servono, c’è Facebook, Whatsapp... Guardi qua, per esempio, non mi collego da ieri sera e già ci sono 207 messaggi non letti... e aumentano: 210... 215... 217. No, non li leggo, sono tutte cazzate. Vediamo, che vuole questa? Guardi, guardi prof! Mi ha mandato un’altra foto! Venga, gliela faccio vedere. Su, non faccia la timida: ma no, non è nuda, è in mutande e reggiseno... Certo che è normale, prof, oggi ormai lo fanno tutte: si scattano le foto nude davanti allo specchio e poi le mandano al fidanzato... Esatto, i “selfie”: lei è proprio moderna, prof. Eh, lo so che ai suoi tempi queste cose non si facevano; solo perché non c’erano i telefonini, comunque. Adesso sono tutte tr... vabbè, non la dico quella parola, visto che non le piace. Ma sono anche stupide, prof! Mandano le foto nude, e pensano che le vede solo il moroso, ma noi maschi ce le passiamo, perché sa, prof, fa figo. Un mio amico ha messo sul gruppo Facebook un video di una che non le dico cosa stava facendo... Ma no che lei non lo sa... Boh, lui ha diciassette anni, lei - dice - venti, ma non lo so se è vero. Comunque, lo dica alle sue figlie - quante ne ha? Tre? - di non mandare MAI foto di loro nude a qualcuno, perché finiscono tutte su internet, è normale. Comunque a me 'ste tipe non mi piacciono; io voglio una ragazza seria, una che pensa, una che non la dà, se non a me... Lei com’era da giovane, prof? Non che non sia giovane anche adesso. Quanti anni ha detto che ha? Noo! Giuro, non glieli avrei mai dati! Non lo dico perché ho bisogno del suo affetto... Ma che rughe, lei non ha rughe! Solo le occhiaie. Quante figlie ha detto che ha? Tre? Ma lo sa, prof, che potrebbe essere mia madre? ... Prof, lei lo sa cosa significa MILF? Io lo so: significa “mother I love”; si fidi, è così. Come “e allora la F che significa”? Che ne so, è inglese. Io parlo francese, arabo e italiano. L’inglese non lo impari a scuola, cosa ti devono insegnare questi qua, sono dei poveri sfigati... No, non dicevo a lei, prof. Io comunque non sto qui a sbattermi, lo so già quello che devo fare da grande: mi prendo il diploma e vado via da questo posto di merda, pieno di montanari cafoni e bestemmiatori - ma lo sa come ammazzano le galline qui? Gli strappano la testa a mani nude! Che animali...io non la mangio la loro carne, la mia religione me lo vieta: gli animali devono morire in fretta e senza soffrire. Io mi prendo il diploma e me ne vado in Francia; c’è mio cugino lì, dice che puoi seguire un corso e poi trovi lavoro. Lei c’è mai stata in Francia? Figo, ha vissuto a Parigi? E’ vero che le ragazze francesi sono tutte tr... Mi stava scappando di nuovo! Ma che pregiudizi, prof! Io non ne ho pregiudizi: le ragazze sono uguali dappertutto, anche in Marocco! Le ragazze vogliono affetto, ma noi maschi pensiamo solo a una cosa: loro vogliono parlare, noi vogliamo sc... Scusi. Insomma, tutti abbiamo bisogno di affetto: solo che bisogna mettersi d’accordo sul tipo di coccole.  Che poi, ‘sto Facebook, tutti fighi, tutte fighe, ma io quando me le ritrovo davanti, queste qua, non so mai che dirgli. Non è che sono timido: è che non sono abituato a parlare. Che c’entra: per fare quelle cose, mica c’è bisogno di parlare. Comunque io ho deciso: fino ai trent'anni faccio il gigolò. Perché ride? Sapesse quante ce ne sono di vecchie che pagherebbero per uno come me. Mi faccio i soldi e poi sposo un brava ragazza. L’avevo trovata una che mi piaceva, chattavamo su Facebook, e l’ho capito subito che era diversa. Ma il suo fidanzato non voleva. Era pure bella, guardi qui: vero che ha la faccia da brava ragazza? Non mi faccia pensare a lei che mi viene l’alzabandiera. Ok, scusi prof. Va bene, la smetto di parlare di queste cose. Ma che Inglese, non ho voglia di fare Inglese, adesso. Usciamo, prof, le offro un caffè alla macchinetta. Non ci posso credere che lei ha veramente tre figlie. Mi raccomando, gliela dica quella cosa delle foto nude davanti allo specchio. Di non farlo, che finiscono sputtanate su internet, è matematico. Certo, certo, le sue figlie saranno diverse, se lo dice lei... Come lo vuole il caffè? Sì, però non torniamo subito in classe, c’è puzza: quegli animali scoreggiano. Io al massimo rutto, ma scoreggiare no, devi proprio essere fuori per scoreggiare davanti a tutti. Gliel'ho detto che questo è proprio un posto di merda.  

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sabato 6 dicembre 2014

Controfigure

Domenica mattina è il giorno della Grande Colazione: il tavolo della sala da pranzo diventa un buffet da villaggio turistico anni '90 e si ammanta a casaccio di tazze, piattini, tost bruciacchiati, panini stantii, biscotti sbriciolati, burro, marmellata con la muffa, latte caldo e latte freddo, salmone, uova e pancetta, yogurt e muesli,  Nescafè per lei, moka per lui e, ovviamente, maxi barattolo di Nesquik per loro.
Quando tutti hanno preso posto, puntualmente ci si accorge, con discreto raccapriccio, che manca lo zucchero.
- Latte taddo - dice la piccola e, soddisfatta, infila la testa nel barattolo del Nesquik. Ne riemerge un quarto d'ora dopo, ma solo per versare sul divano mezza tazza di latte, strapazzare vieppiù le uova strapazzate, salire sul tavolo, leccare la marmellata sulla lama del coltello e adagiare culetto e pannolino gonfio di pipì notturna sulla fetta di pane appena imburrata dal padre.
La mamma beve il suo Nescafè mentre legge il Corriere della Sera vecchio di due giorni e si disinteressa, famelica e proterva, del destino dei suoi parenti. Il papà fa quel che può.
Le altre due bambine confabulano tra loro. La Grande Colazione, nel frattempo, si trasferisce con movimento fluido dal tavolo ai loro pigiami puliti e al pavimento che, invece, pulito non sarà mai.
Giuditta rimesta nella sua tazza, pensierosa. Si è già alzata tre volte da tavola per andare a controllare se il dentino che le è caduto tre giorni fa, riposto in un cassetto, è stato finalmente sostituito dal regalino.
Quando cade un dentino, a queste latitudini, si mette in moto una task force multirazziale composta da:
- un topolino che viene dalla Sicilia;
- una formichina che viene dai dintorni;
- una fatina dei denti da latte che, presumibilmente, viene dalla Pixar.
(Soffermiamoci solo un istante sul fatto che, qui al nord, ovviamente interviene una formichina: la proverbiale efficienza austro-ungarica si riverbera persino sul loro immaginario; potevano mai scegliere la cicala per fare questo sporco lavoro?).
Il molarino di Giuditta è caduto tre giorni fa; tentennava da settimane, fino a quando suo padre non ha tirato fuori il kit da estrazione dentini da latte, composto da: filo interdentale, pinzetta, tenaglie, martello, sega, fazzoletti di carta e cotone idrofilo. Queste scimmie urlano e strepitano se si graffiano un dito, ma poi si fanno seviziare da un padre sadico e ridono non appena il sangue comincia a zampillare: perché vuol dire che il dentino è caduto e presto sarà sostituito da un regalo. Così piccole e già mercenarie.
La madre solleva per un istante lo sguardo dal suo giornale e osserva una nuvola di Nesquik che si deposita pigramente sulla sua pantofola. Le viene in mente che il suo papà le estraeva i dentini dondolanti legandoli con un filo alla maniglia della porta del bagno e facendola sbattere dopo aver contato fino a tre. Ma forse quello è solo un falso ricordo; non può essere che il suo papà fosse così sadico. Oppure sì, tutti i papà diventano sadici, quando si tratta di dentini da latte.
- Quelli sono in tre, il topolino, la formichina e la fatina: eppure,  il dentino è ancora nel cassetto; quand'è che se lo vengono a prendere?
Giuditta è impaziente; chi non lo sarebbe, al suo posto? La Supersuocera, all'ennesima domanda della nipotina sul perché di questo inaudito ritardo, imbarazzata e furiosa con topolini, formichine e fatine indolenti, ha suggerito che, forse, stanno aspettando che cada anche il dentino di Bianca, per fare un solo viaggio. Sarà per questo che ieri Bianca ha lasciato che la sorella impaziente tentasse in tutti i modi di strapparle il dente morituro, per farla finita in fretta e avere questo benedetto regalino.
Formichina, topolino o fatina, bisogna che qualcuno lo porti, prima o poi. Prima che l'indignazione della Supersuocera raggiunga livelli di guardia. 
E subito dopo toccherà ricominciare con Babbo Natale e le sue renne trafelate; e poi la Befana.
Fra qualche anno, tutti questi personaggi così familiari scompariranno, uno dopo l'altro, come i dentini. Saranno sostituiti da chissà chi. Non da mamma e papà, perché anche al posto loro, come al posto di Babbo Natale e della fatina, ci sarà qualcun altro; due a cui urlare "esci dalla mia camera", "tanto non puoi capire" o "voglio l'iPhone 9".
Oggi, però, in mezzo ai resti sparsi della Grande Colazione, ci sono ancora tre bambine - le dita impiastricciate, i sorrisi sdentati e i pensieri magici - un papà estrattore e una madre che può sentirsi ancora una fatina, non fosse che per recapitare un dono, in cambio di un dentino che ricrescerà per l'ultima volta.

martedì 11 novembre 2014

One way out


Comincia nel momento in cui la voce ti avverte: “Ci siamo. Adesso spinga, signora”. Nella stanza ci sono molte persone: l’ostetrica, il ginecologo pronto per suturare lo sfascio sanguinolento che tra poco sarai, la collega del ginecologo a fine turno che lo aspetta per andare in mensa, la stagista ostetrica al suo primo parto, l’anestesista che è passata per verificare come mai l’epidurale ha funzionato solo per la metà destra del tuo corpo, le puericultrici e la pediatra neonatale. E tuo marito, che è lì da quando tutto è cominciato. Tutta questa gente in una stanza insieme a te e invece tu sei da sola, da ore. Le contrazioni si susseguono una dopo l’altra, innumerevoli, eterne; non finiranno mai, tu lo sai che non finiranno mai. Quando arriva il momento delle spinte, non sei più tu, il tuo corpo sembra che lo stia pilotando un’altra, una tipa tosta che sta al suo posto e fa quello che le dicono di fare. Tu invece sei in un angolo a piagnucolare e vorresti essere da un’altra parte. Quella è la resa dei conti; può durare poco o molto, non importa. È la vertigine cosmica, l’istante in cui sai che il tempo ha una sola direzione e tua figlia una sola strada da percorrere, dentro di te. Tu spingi e sai che non puoi fare altro. Spingi e sai che non ce la puoi fare. Spingi e non vorresti essere tu l'unica a poterlo fare, e invece no, sei proprio tu, e sei lì, non altrove, e tua figlia deve uscire, perché ormai è dentro e non si torna indietro. Sai che non ce la farai, sai che sei sola e che lo sarai finché la bambina non sarà uscita. E spingi. È una faccenda lunga; lunga e faticosa. La nascita e la morte hanno questo in comune: c’è fatica e dolore in entrambe e, se naturali, prendono un sacco di tempo. In entrambi i casi, il nulla e la vita si toccano un istante, in entrambi i casi si è soli anche se c’è gente intorno; in entrambi i casi, dicono che ci sia una luce in fondo al tunnel. Con un risucchio di sangue e muco si precipita nella vita, quando tutto va bene. Non so cosa provino i neonati, ma sono sicura che, tra le sensazioni, ci deve essere una paura animale e incontrollabile. Esattamente l’unico sentimento che una madre non prova, mentre dà alla luce un figlio, perché una madre è spinta, e nient'altro, in quei momenti. La paura è il sentimento che proverà in ogni istante, non appena il figlio sarà nato. Paura è il sentimento che noi tutti proviamo al pensiero di morire. Spaventati e terrorizzati, perché non sappiamo se, dall’altra parte del tunnel, ci sarà qualcuno che ci aspetta e che, come una madre, non ha paura per noi mentre percorriamo l’ultimo tratto.

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venerdì 10 ottobre 2014

Sopore anarchico

Notte d’autunno di due anni fa; ho appena depositato la mia terza figlia tra le braccia sapienti delle puericultrici dell’ospedale della ridente e piovosa città di F*****. Nel corridoio illuminato dalle luci di emergenza incontro lei. L’ostetrica ridens. Ha un sorriso fisso e vagamente demoniaco, la pupilla immobile come quella della mamma-ragno di Coraline. 


“Signora, è tardi; cosa fa ancora in giro a quest’ora?”
“Non riuscivo ad addormentare la bambina: sono stravolta. Non so che fare. E sì che è la terza...”.
L’ostetrica continua a fissarmi con il suo sorriso immobile. 
“Signora, i bambini appena nati non dormono in modo regolare. Non possono farlo. Nemmeno la sua lo farà. Sono condizionati da un retaggio ancestrale, un sistema di protezione genetico, sviluppato quando ancora vivevamo nelle caverne: se la madre si addormenta, i cuccioli sono in pericolo. Non possono sopravvivere se qualcuno non li protegge dal freddo o dalle bestie feroci. Il loro cervello rettiliano fa da sentinella. La madre non deve dormire”. 
“E il padre?”.
“Il padre va a caccia ed è meglio che dorma, altrimenti la famiglia non mangia”. 

Vacillo. 

“Provi con la musica; la musica e il canto fanno miracoli”.

L’ostetrica si allontana; vedo solo la sua nuca, ma so che il sorriso è ancora lì, inquietante e privo di senso come quello dei due vecchietti di Mulholland Drive. 



Sono passati due anni. Le notti insonni non mi sono state risparmiate nemmeno questa volta. La mia prima figlia si è svegliata ogni due ore per un anno e mezzo. La seconda ogni tre, per due anni. La terza si sveglia, tuttora, secondo un timing notturno imprevedibile. 
Tre figlie, moltiplicate per anni di risvegli: il risultato sono io, oggi. Quel che resta di giorno.

Svegliare un essere umano ogni ora è una tortura brevettata dai cinesi e inserita nel loro famigerato repertorio come rimedio per prigionieri particolarmente coriacei. Dopo gli elettrodi sui testicoli e lo schiacciamento degli alluci, c’è la tortura del sonno. Io sono una reduce, una veterana pluridecorata che porta ancora i segni delle sevizie subite durante la prigionia. 

Eppure, domani, la mia ultima bambina e il suo cervello rettiliano compiranno due anni. Si sta per chiudere un’epoca fatta di risvegli atroci e fumo nel cervello, palpebre marsupiali e maratone di estenuanti addormentamenti canori.
Quanto abbiamo cantato, per fare addormentare le creature.

Per celebrare i due anni passati e dando per scontato che, nella mia vita, non dovrò mai più addormentare una neonata, ecco di seguito la colonna sonora soporifera degli ultimi nove anni. 

1) Prima bambina:

  

L’Arca di Noè, di Sergio Endrigo

Impostata in loop nell’iphone, “partirà, la nave partirà”: la nave partiva, la bambina si addormentava. I genitori, invece, rimanevano svegli, con gli occhi fissi nel buio, a interrogarsi sul significato di una delle canzoni più angoscianti della storia musicale italiana. 

“Un volo di gabbiani telecomandati
e una spiaggia di conchiglie morte.”
...
“Un toro è disteso sulla sabbia 
e il suo cuore perde kerosene.
A ogni curva un cavallo di latta
distrugge il cavaliere.”
...
“La casa è vuota, non aspetta più nessuno.
Che fatica essere uomini!”.

Niente maternity blues per me. Ma vi assicuro che l’Endrigo blues è stato molto peggio. La bambina, invece, è cresciuta sana e allegra. So, però, che un giorno me la farà pagare. 

2) Seconda bambina: Into my arms, di Nick Cave.


Ah, quella voce, Nick. Vibrante e roca, forte e carezzevole allo stesso tempo. 
Parole che dovrebbero sempre accompagnare una donna, che sia suo padre o il suo uomo a dirgliele. 

"I don't believe in an interventionist God
But I know, darling, that you do
But if I did I would kneel down and ask Him
Not to intervene when it came to you
Not to touch a hair on your head
To leave you as you are
And if He felt He had to direct you
Then direct you into my arms".

3) Appena nata, la terza bambina reclinava il capino su qualunque spalla (preferibilmente quella del padre), non appena partivano le note del Nessun dorma (Turandot, Puccini). 


    

Poca coerenza, lo so. Ma quel “Vincerò” lo ha introiettato per bene.
Crescendo, i suoi gusti musicali si sono evoluti. Ha iniziato a ipnotizzarsi con Addio Lugano bella. Canzone di anarchici, da cantare a squarciagola in coro familiare. 

"Addio Lugano bella, o dolce terra pia (con la pronuncia veneta, diventa: “o dolce terapia”)
scacciati senza colpa, gli anarchici van via.
E partono cantando, 
con la speranza nel cuor”.

Il risultato è una bambina con le idee chiare: non solo vincerà, ma lo farà a modo suo. 


martedì 2 settembre 2014

Ibis redibis

Ad alcuni è dato di crescere in un luogo per doverlo poi lasciare. C’è chi va via perché deve, chi perché lo vuole. Spesso, la vita, l’amore e il lavoro si trovano altrove, in luoghi più o meno lontani, più o meno diversi. Nel nuovo luogo si costruisce: ma è solo da dove si è partiti che si può continuare a tornare. 
E ogni anno, spinti da una forza inspiegabile ma nota, risaliamo la corrente come i salmoni e torniamo al punto delle nostre partenze. 
È il luogo che continueremo a chiamare sommessamente casa; ma a bassa voce, perché gli altri non sentano. 
È il luogo in cui il tempo si è fermato anche quando continua a scorrere; in cui rimani sempre lo stesso pur essendo cresciuto; in cui ritrovi ogni cosa anche se tutto è cambiato. Non deve per forza essere bello; basta una piazza, un bar, la casa, un campetto e l’orizzonte. Questo luogo parla attraverso un lessico condiviso solo da quelli che gli appartengono. Non attira tutti, solo i suoi figli. Di solito, più il legame con il luogo di partenza è forte, più lontano si riesce ad andare. 
Poi però si torna, ed è sempre un ritorno ad immersione integrale, mani testa piedi e cuore, difficile da spiegare a chi, a differenza di noi, da lì non è partito. 


Il luogo della mia partenza e dei miei ritorni ha una bellezza violata che riesco ancora a cogliere, nei suoi residui, con la cieca ostinazione di un’innamorata delusa. È diventato, negli anni, talmente tanto brutto, che l’immersione totale mi scortica ogni volta. E però mai potrei non tornare. Perché il mare è dappertutto, ma il mio è solo qua. Bisogna tornare per osservarlo e ritrovare la sua forma, ogni anno sempre uguale, benché il mare non stia mai fermo. 

Oggi c’è la calmerìa di scirocco, cielo e acqua dello stesso colore, i rumori ovattati. Domani arriverà il vento canale, i cavalloni imbizzarriti che ti strappano il costume e tutto vola via, ombrelloni teli giornali. Il vento canale dura a lungo, così a lungo che c’è chi impazzisce. E poi, senza avvisare prima, viene il vento di terra: liscia la superficie del mare che diventa pigra e ondulata, come una coltre stesa sopra i corpi di due amanti senza fretta. 
Chi è cresciuto qua sa che in spiaggia si parla del mare e della forma dell’acqua e ogni giorno ci si scambia il bollettino dei venti e delle correnti. Poi i pettegolezzi, i libri iniziati e mai finiti, le elegie del pomodoro che sa di pomodoro, le confidenze tra amici che non si vedono da un anno e che vengono riprese esattamente dal punto in cui si erano interrotte l’anno prima. 
Quando torni nel posto da cui sei partito, non trovi fili recisi che si spezzano e lasciano buchi; c’è solo da riprendere l’intreccio, la trama non conta, perché è sempre la stessa. 


Quanto tempo si deve concedere, ogni anno, al ritorno? Due settimane? Un mese? Di più? 

Il tempo di fare la conta di chi è partito e non è tornato, delle sedie rimaste vuote fuori dagli usci, delle porte di case che nessuno riaprirà. Il tempo di vedere che, grazie a dio, qua non cambia mai nulla. Il tempo di farti avvolgere dalle spire dei giorni uguali e prevedibili, di rannicchiarti dentro quella comoda culla che oscilla sempre con lo stesso ritmo e che non è diventata troppo stretta, nemmeno adesso che sei cresciuta. 
Il tempo di farti riconoscere dal tuo cielo, comporre l’inventario dei ricordi, inghiottire le tue madeleines fatte di pane caldo e frutti di stagione, salutare chi se n’è andato e chi resta. Darsi il tempo di aspettare la pioggia di fine estate e benedirla quando arriva. 

Io ritorno per ripartire ogni volta, perché chi non si muove mai non è vivo. 
Ma ripartire senza mai tornare sarebbe un ben triste modo di muoversi su questa terra.

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lunedì 11 agosto 2014

C'erano le fate e i lupi mannari

Ai tempi in cui questo torrente riarso scorreva tra due ali gentili di limoneti e oliveti terrazzati; quando i muri delle casette erano fatti di malta, pietre di fiume e tegole e si andava a letto con le galline - perché le galline dormivano con i cristiani - ebbene in quel tempo ormai lontano, nelle sere d’inverno e di pioggia, i grandi raccontavano le storie ai bambini. 
Erano storie vere e un po’ paurose, incredibili ma non fantastiche, realmente accadute a un nonno, a un cugino o a una zia, che le raccontavano, da testimoni oculari, a bambini impauriti ma avidi di ascoltarle. 
Questi bambini erano i miei nonni e i miei genitori, che poi le hanno raccontate a me e alle mie sorelle. Non c’erano ipad, allora, per tenere buoni i bambini; c’erano invece i folletti e i lupi mannari, le lune piene e le bambine fatate, gli spiriti dei morti che vagavano per le strade e serpenti mostruosi che facevano impazzire i malcapitati che avevano la sventura di vederli. 

Di storie incredibili non ne accadono più; le terrazze di limoni e ulivi le hanno bruciate i pastori o spianate i palazzinari e al posto delle galline c’è il Pulcino Pio; le case sono fatte di cemento armato, così armato da aver sconfitto gli spiriti e le fate. Quelli che raccontavano di loro, ormai, sono spiriti anch’essi. 

Non c’è nulla di più triste e definitivo di una storia che non viene più narrata: forse solo una giornata troppo corta perché troppo piena di cose da fare. Adesso, mettete un ipad in mano ai vostri figli (come ho fatto io per poter scrivere questo post) e prendetevi il tempo di leggere le tre storie che, qui di seguito, ho deciso di strappare all’oblio. 

Le fate nei capelli 

La bisnonna Catina aveva una sorellina di sei o sette anni; era una bambina strana, per due motivi: aveva una forza sovrumana e i suoi capelli erano pieni di “fate”, cioè di nodi inestricabili. Non si sa se le due cose fossero correlate; fatto sta che la bimba usciva da sola, prima dell’alba, per raccogliere sacchi di erba e pale di fichi d’India che poi trasportava a spalla fino a casa; sollevava pesi come un uomo adulto e in casa puliva e rassettava come una mamma. E questo era ben strano. Un giorno, però, si ammalò e morì (cosa che, a quel tempo, strana non era). Prima di metterla nella bara, la madre le tagliò le trecce per serbarle come ricordo e le appese ad un chiodo in cucina. Quando però la piccola bara fu presa in spalla per essere trasportata al cimitero, le trecce “fatate” si staccarono dal chiodo e seguirono a mezz’aria il corteo funebre. Si depositarono infine sul coperchio della cassa da morto e nessuno ebbe più il coraggio di staccare le “fate” dalla bambina, così che, insieme, finirono nella tomba. 

(Testimone oculare: la bisnonna Catina, nonna di mia madre). 

L’uomo che non c’è 

Santo, il padre della zia Maria, stava risalendo con l’asina il greto del torrente per portare i sacchi di grano al mulino del paese. Era partito troppo presto e la luce dell’alba era ancora così lontana che tutto attorno era buio pesto. L’asina, d’un tratto, piegò le ginocchia e decise di sedersi per terra. Non c’era anima viva a cui chiedere aiuto e una sola persona non può nulla contro un’asina seduta. All’improvviso, Santo vide un uomo che camminava lungo il letto secco del torrente. Gli chiese aiuto; quello, senza dire una parola, gli si mise accanto e insieme iniziarono a spingere la bestia. L’asina si mosse un po’, ma non dal lato in cui spingeva l’uomo silenzioso. Santo si spazientì. 
“Spingete più forte! Non ne avete forza nelle braccia? Ma che siete morto?” 
L’uomo lo guardò e gli disse: “Guardate voi”. Poi si girò: e Santo vide che dietro era vuoto, cavo, e al posto del suo corpo non c’era nulla, solo il buio. Pieno di orrore, Santo diede un calcio all’asina e cominciò a correre, seguito dalla bestia. 
Si voltò indietro: l’uomo era sparito nel nulla e l’alba era ancora lontana. 

(Testimone oculare: il padre della zia Maria, cugina di mia nonna). 

L’uomo in frac

Bastiano tornava dalla campagna. Era notte fonda, l’acqua a quel tempo passava nelle saje (i canali) a ore strane e a volte bisognava alzarsi dal letto in piena notte per irrigare i limoni. Bastiano camminava veloce; il paese era a due chilometri, la strada tutta curve, senza lampioni. 
Ad un tratto, Bastiano vide un fascio di luce. 
“Che strano - pensò - una macchina a quest’ora”. Ma passarono i secondi e non comparve nessun’auto. Dopo qualche curva, ormai alle porte del paese, Bastiano si fermò, atterrito. Lungo la strada gli veniva incontro, con passo spedito, uno strano signore; era vestito di bianco, in testa un cappello a cilindro, la figura elegante, lo sguardo fisso davanti a sé. A quell’ora e in quel luogo, quell’apparizione non aveva senso. Era un diavolo? Un angelo? Sicuramente non era di questa terra. Bastiano non aspettò di scoprirlo. Corse a gambe levate, corse senza voltarsi e raggiunse le prime case col cuore che gli scoppiava in gola. Di quel signore elegante che camminava di notte lungo le vie di un paese di contadini, nemmeno l’ombra. 




(Testimone oculare: Bastiano, mio nonno) 

Quando me le raccontavano, queste storie mi mettevano in corpo un terrore pulito, la sensazione di appartenere ad una realtà misteriosa dentro cui tutto poteva succedere. Adesso, credo che quella della bambina con le “fate” nei capelli fosse solo una storia di sfruttamento di minore con dreadlocks (anche mia figlia ce li ha: è bastato non pettinarla per una settimana); che Santo era probabilmente un buontempone pieno di fantasia e che mio nonno doveva aver bevuto qualche bicchiere di sambuca prima di tornare a casa. 
Deve essere così, altrimenti non mi spiego come mai spiriti, fate e asine non si facciano più vedere in paese. C’era un lupo mannaro, la cui identità era nota a tutti, così come la sua abitazione: ma è morto e non ha lasciato eredi. C’erano le “mavare” guaritrici che leggevano la mano. C’era forse la magia, tra gli alberi e il buio. 
Ma, di tutto questo, non è rimasto più nulla.

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giovedì 31 luglio 2014

Holiday Inn

- Buongiorno! Che buon odorino, è pronto il caffè?
- No, tua figlia ha cagato per terra. 
- Zitti! Silenzio! Voglio dormire! 
- Chi è che urla? 
- Tua sorella. Dice che i bambini fanno chiasso e non può riposare.
- Sono solo le undici? Oggi mi sono svegliata presto! 
- Ariane, io sto uscendo, vado a fare la spesa: li tieni tu questi sei bambini? 
- Sì ma quando torni? Ho bisogno di andare a prendere una granita al caffè 
- Aleee! Fai il latte ai bambini?
- Non vedi che sto dormendo?
- Chi li porta al mare? Li porta Stefi? 
- No, è uscita stamani all’alba per andare a fare shopping. 
- All’alba?
- Sì, mentre tutti dormivano, per essere sicura che nessuno glielo impedisse. 
- Ma dove sono le maschere? 
- Mamma, non trovo le ciabatte! Posso prendere quelle del nonno? 
- Chi va con la Vespa?
- Io; e mi porto mia figlia. 
- E gli altri cinque? 
- Vengono con te, la mamma e Stefi. 
- Ma non ci stiamo in macchina! 
- Chiama il nonno, digli di fare due viaggi. 
- Dov’è la piccola? 
- È lì in cima alle scale e sta per precipitare a capofitto battendo più volte la testa sugli spigoli. 
- Presa! 
- E le tovaglie*? 
- Non le dovevi prendere tu? 
- Senti, guardami un po’ la piccola, che devo farmi una nuotata rassodante. La lascio qui sulla battigia** a lanciare le pietre in acqua. 
- Non sono pietre, sono le chiavi della macchina del nonno. 
- Dove sono gli altri cinque? 
- Due se li sta portando via la corrente, e due sono laggiù che giocano con la sabbia. 
- Non ne manca una?
- No, è con gli altri due, la stanno sotterrando. Non vedi il naso? 
- Ma che si mangia oggi? 
- Bambini, è in tavolaaa! 
- Scendi dal piatto di tua sorella! 
- Staccati dal braccio di tuo cugino, la carne è nel piatto! 
- Smettetela di urlare, non sento il telegiornale!
- Dov’è la piccola?
È sul terrazzino: sta lanciando olio bollente sui passanti. 
- Non è olio bollente. Sono gli occhiali del nonno! 
- No! 
- Scherzavo. È il tuo telefonino. 
- Bambini, adesso si fanno i compiti! In silenzio, che il nonno deve riposare! 
- Ma dove sono i bambini? 
- Stanno giocando alla sfilata di moda con i vestiti della nonna. 
- Ah. Meno male, credevo fossero i miei. 
- Stasera io esco, devo andare a teatro. 
- No no no! Stasera tocca a me. Tu sei già uscita ieri.
- Ma io ho solo una figlia, tu ne hai tre. Quindi, stai ferma tre turni.
- Dov'è la piccola?
- Sta disegnando sui muri del nonno col pennarello indelebile. 
- No! No! NO! 
- L’ho presa! 
- Mi presti il tuo vestito a fiori? 
- L’addormenti tu la piccola? 
- Ma dov’è il mio lavoro all’uncinetto? 
- Ti riferisci alla capanna di fili di cotone che hanno costruito le bambine? 
- Perché il bagno è allagato? 
- Chi ha cagato per terra? 
- Non è cacca, è nutella. 
- Quindi, se la piccola la sta leccando, non devo intervenire? 
- Scherzi? Bisogna essere fatalistici. 
- Hai ragione. Dopotutto, siamo in vacanza. 

… 

- Dov’è il nonno?


* Legenda per i lettori settentrionali: 
Tovaglie = teli da mare
Pietre = sassetti della spiaggia.

* Legenda per i lettori meridionali:
Battigia = 'nta botta o' mari

mercoledì 23 luglio 2014

Ultima spiaggia

Voi che villeggiate contenti sulle vostre comode spiagge attrezzate, 
considerate se questa è una vacanza:

tra i cassonetti imbottiti di marcio, sulla coltre di cicche spente fra un telo e l’altro, vicino al rigagnolo di scolo della fognatura bucata, tra il rally delle auto sulle strisce pedonali e i lidi fiammanti di ruggine e plastica, all’ombra di una baraccopoli di loculi in cemento armato, con gli stitici balconi appena calpestabili, perché lo spazio è poco e ci dobbiamo stare tutti, anche se nessuno ci viene più. 

Considerate se questa è una Riviera: 

violentata coi tondini di ferro, scorticata delle sue tamerici, imbrattata di cattivo gusto edilizio, stipata di case e case e case e case. Senza un giardino, senza una siepe o un’aiuola fiorita a interrompere questo lungo nastro continuo di bruttezza inconsapevole e tronfia, che osa guardare il mare di Omero, il mare color del vino, e non si vergogna. 

Vergogniamoci noi, al suo posto, noi che abbiamo permesso che i mattoni forati prendessero il posto degli oleandri, per un tozzo di pane al metro quadro che ci ha resi tutti pezzenti e contenti, azionisti con le pezze al culo di una delle zone un tempo più belle di questa Isola trafitta di punte e angoli acuti, di cui siamo i fieri carnefici. 

Il mare è sempre bello, ma solo perché non abbiamo ancora trovato il modo di costruirci sopra qualcuno di quegli alveari grigio-merda che ci piacciono tanto. 

Guardiamocelo, il nostro bel mare, convinti che il mare di turisti che qui non torneranno più non abbiano occhi per vedere cosa abbiamo fatto da Capo a Capo.

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mercoledì 16 luglio 2014

La maratoneta

Corro e il vento caldo mi asciuga il sudore addosso, modellando il mio corpo come fa il mare con le falesie. 

Corro e i miei capelli volano con me, il fiato ritma i battiti del cuore, l’occhio si perde sulla linea del mare ondulato. Oltrepasso panchine e docce, doppio tamerici e sfioro oleandri, il traffico del lungomare mi ronza a fianco e tifa per me. 

Corro come se veramente queste tristi trippe tremolanti non vibrassero sotto i colpi dei tendini incriccati, come se la pancia potesse davvero asciugarsi e tornare come un tamburo tribale che suona senza tremare. 

Corro come se questo piano inclinato che è la china del tempo e degli anni che passano potesse veramente essere risalito, fino in cima, fino alla meta della carne soda giovane e invitante. 

Corro come se non fossi Sisifo, che trasporta il suo macigno in cima, ogni volta dimentico che poi rotolerà giù e che bisognerà ricominciare a spingere. 

Corro come se non fossi Penelope, che di giorno tesse la sua tela di buoni propositi, e la notte apre il frigo e disfa la tela. 

Corro come se avessi vent’anni e questo fosse lo stesso mare di allora, la stessa spiaggia dei pomeriggi giovani e infiniti. 

Corro e mi schianto contro la granitica, triste realtà: “Spostati” dice un uomo a suo figlio, “che se no fai inciampare la signora”.

... 

sabato 12 luglio 2014

Infanzie difficili

- Mamma, tette! 
- No carina, niente tette. Non ti ricordi che ne avevamo parlato e io ti avevo convinta, facendoti fissare un ciondolo oscillante, che la tetta non ti piace più? 
- Tette bleah! 
- Esatto, tette bleah, schifo, cacca!
- … 
- … 
- Mamma tette!
- Nooo. Rifletti: ti ricordi che te l’ho fatta assaggiare ricoperta di sale e non ti è piaciuta, lì per lì? 
- Tette bleah! 
- Brava bambina, così ti voglio! 
- …
- … 
- Mamma tette! 
- Aridaje, co’ ‘ste tette! Non te le posso dare, le ho cosparse di acido glicolico in purezza: dicono che faccia miracoli per le tette pendule, però non è salutare per i bimbi. 
- Tette bleah! 
- Proprio così. Ripeti insieme a me: tette no! 
- Tette no! 
- Ecco, brava! 
- Tette no. Mamma tette! 
- Eh, ma tette no significa che non le puoi ciucciare più. 
- Tette… 
- Smettila di osservarle con desiderio e nostalgia, mi spezzi il cuore. 
- Tette… 
- No, ti prego, l’occhio sospiroso e concupiscente no! Sembri tuo padre. 
- Tette… 
- Crescerai, te ne farai una ragione, le dimenticherai. 
- Tette bah?
- Tette bacio? Vuoi dare un bacio di addio alla tetta?
- Tette bah! 
- E va bene, ma solo un bacino, eh, non ti fare venire strane idee… 
- Ecco tette!
- Aaaah! Staccati! Mollami! Aiuto! Si è attaccata! Tiratela via! Solaaal! Aiuto! Alien, pussa via! Non ciucciare! 
- Ariane, ma che state facendo?
- Solal, aiutami, tirala per le gambe, io le tappo il naso finché non soffoca! 
- Ecco qua: staccata. 
- Tette, sigh. 
- Poveretta, Ariane, piange di disperazione e cordoglio... 
- Piange? Mi ha teso un tranello, la baldracca in erba. Portala via! 
- Tetteeee! 
- Ariane, ma non avevi smesso con l’allattamento? 
- Io sì, ma lei no! 
- Non mi è chiaro ma non importa. 
- Solal, io non capisco: ma cosa ci trova nelle mie tette? Perché è ipnotizzata dai miei capezzoli? Qualcuno dovrà convincerla che non si può passare la vita a desiderare di stare attaccata a un seno. 
- Non guardare me, per questo; nemmeno io me ne sono ancora fatto una ragione. 
- Che c'entra, tu sei maschio; lei è una bambina.
- Eh, infatti per lei sarà ancora più difficile. Almeno, noi maschi abbiamo i mondiali di calcio. 
- Voi mi angosciate. Voi e le vostre pretese sul mio corpo! Il corpo è mio, capito? Me lo gestisco io, capito? 
- Ecco, e vedi di andartelo a gestire in cucina, per favore, che è l’una e la tavola non è ancora apparecchiata.
- Guarda che io non sono tua madre e tu non hai sedici anni. 
- Davvero non sei mia madre? Strano, a volte me ne dimentico. 
- Villano. 
- Ariane? 
- Sì?
- Tette bah? 
- Solal? 
- Sì? 

domenica 22 giugno 2014

Summertime

L'anno scorso, di questi tempi, scrivevo il seguente post per dare conto della nostra vacanza istriana:

ELENCO DEI MOTIVI PER CUI ALCUNI ITALIANI NON SONO I BENVENUTI SU UNA SPIAGGIA ISTRIANA
(clicca per leggere)

Quest'anno, siamo ancora lì: stessa spiaggia, stesse nonne istriane. Il quadro è più o meno uguale, con qualche necessaria integrazione per completare l'aggiornamento annuale delle vacanze:
- La neonata non è più neonata: cammina, parla ma nessuno la capisce; tenta spesso di lanciarsi dal davanzale della finestra al piano terra ma, ormai, non ci badiamo più. Non ha ancora messo piede in spiaggia perché è deturpata dalle macchie rosse della quinta malattia; fa veramente impressione: meglio nasconderla agli sguardi di disapprovazione delle nonne istriane.
- Le altre due bambine continuano, senza molto successo, a tentare di colonizzare la spiaggia. I bambini croati le ignorano, i vicini di asciugamano le tollerano, il mare ogni tanto me le ributta in spiaggia insieme alle conchiglie e a qualche penna di gabbiano. 
- Il burec stivato in borsa da due giorni sta buono e pacifico; quello stoccato nell'intestino, invece, ogni tanto si ribella e tenta di riproporsi con sbuffi di cipolla stufata e palline di formaggio fermentato. Fa il suo mestiere di burec.
- Mio marito è ancora, inopinatamente, a torso nudo. Però non al bar: è davanti alla tv, col suo bicchiere di birra in mano, indefesso spettatore di partite di calcio, finali di basket, tornei di poker e scontri diretti di pesca al gamberetto di fiume. Immobile, come il centravanti in panchina. Ogni tanto, una cavalletta gli salta addosso. 
Per scacciarla, sospira. Quei sospiri ispirati e meditabondi che solo una birra ghiacciata può suscitare. Come dei brontolii di nubi basse sull'orizzonte minaccioso. 

Non siamo mai stati così bene.








giovedì 19 giugno 2014

Uomini e no

Ho messo a letto le mie bambine. Ho spento la luce e ho chiuso la porta. Poi l’ho riaperta e sono rimasta a osservarle nella penombra. 
Una è grande, tirannica, dolcissima. 
Una è bella da togliere il fiato. 
Una è piccola, così piccola che occupa tutto il mio mondo e le mie giornate. 
Le ho generate col dolore del mio ventre e le sto crescendo con fatica e amore supremi; ben presto se ne andranno in giro per il mondo. Le accompagnerà il mio cuore attorcigliato nelle viscere, per la paura. 
La paura che non incontrino solo mani calde e forti di compagni innamorati, ma artigli feroci di bambini mal cresciuti e male amati, di deboli codardi sterminatori, di cani rabbiosi che non divorano la preda per saziarsi, ma per godere mentre ne fanno scempio. 
Io non le vorrei mandare là fuori, se là fuori c’è anche una sola di queste anime perdute. 
Mamme di futuri uomini, vi prego: state attente all’essere umano che state crescendo. Insegnategli il giusto modo di amare, che non è mai possedere, che non è mai pretendere, che non è mai distruggere. Non li abbandonate mai, nemmeno per finta. Prendetevi cura di loro, ma non li fate sentire dei sultani. Coccolateli ma non viziateli. Innaffiateli e concimateli con le parole dell’affetto e della cura, ma state attente che dai bulbi non vengano fuori dei narcisi. I narcisi sono fiori letali: se li ferisci, ti sbranano. 
Lo so che, a volte, tra le morbide spire di famiglie normali si possono annidare dei cuori neri, delle anime spente, degli occhi rapaci. 
Non sempre siamo responsabili di quello che fanno i nostri figli. 
Però vi imploro lo stesso, madri di futuri uomini: fate in modo che nessuno abbia mai a soffrire per le conseguenze dei vostri atti mancati, delle vostre reazioni smagliate, della vostra rabbia e della vostra stanchezza. Cercate di fare in modo che non si smarriscano, i vostri futuri uomini.
Perché poi, se si perdono, potrebbe capitare che a ritrovarli sia una delle mie figlie.