domenica 25 settembre 2016

Da mi basia mille




Lo cerchiamo tutti, non tutti lo troviamo. E c'è chi lo trova senza cercare.
Il vero amore, quello che prima ti fa tremare le gambe e poi resta al tuo fianco per sorreggerti; quello che ti fa dimenticare tutto il resto, ma con lui tutto il resto ha finalmente senso.
Lo riconosci perché, passato lo scirocco impertinente dei primi tempi - quello che butta tutto all’aria e ti alza le gonne e ti fa turbinare e ballare occhi negli occhi – non ti lascia spettinata e stanca al centro della pista; non appena il vento è calato (nessun vento soffia mai perenne), quel che resta ti avvolge con la calma dell’aria ferma, dell’aria trasparente che non sfuma i contorni, non affosca il cielo, ti consente di scrutare lontano e cogliere i dettagli nitidamente. Ha braccia forti che bastano per due.
Il vero amore non ti chiede ciò che non hai, ma pretende quello che sei. Ti desidera anche senza prenderti, ti dà quello che vuoi, che tu lo sappia o meno. Arriva quando è il momento, se il momento arriva; altrimenti, stai solo inseguendo ombre cinesi su carta di riso. Non risolve tutti i tuoi problemi, nessuno può farlo, ma da sola saresti, appunto, sola.
Il vero amore lo provi per una persona che non smetti di desiderare anche quando è tua. È pieno di difetti, è vero; ma come gli stanno bene, addosso.
Non vuoi altro che il suo bene, lo vorrai per sempre e in cambio chiedi solo che esista. Puoi indossare la sua pelle e stare comoda o sentirti bellissima, e quella pelle ti calza a pennello, come se fosse la tua.
Lo riconosci subito, perché lo hanno fatto apposta per te; dà un verso ai tuoi giorni e un senso alla loro somma.
Se gli prendi la mano, hai tutto ciò che ti occorre. Se gli parli, lui ti ascolta. E ti vede.
Potreste fare tutto, insieme, oppure non fare niente ed essere colmi lo stesso.
Non è l’altra metà della mela; se hai bisogno che qualcuno ti completi, ti mancherà sempre qualcosa. 
Siete due, quei due. Due come tanti ma, insieme, felici. 
Io li ho visti, quei due, tanti anni fa: passeggiavano fianco a fianco lungo un molo sul Bosforo e avevano i capelli bianchi e i cappotti neri. Lui era davanti a lei, non al suo fianco: come se volesse rendere sicuri i suoi passi e aprirle la strada da fare insieme. Procedevano in silenzio, senza guardarsi. 
Sorridevano.


venerdì 23 settembre 2016

And the shame was on the other side

Confesso di essermi commossa leggendo la lettera della mamma coi sensi di colpa
Mi sono immedesimata in tutti i suoi moti di inadeguatezza, in ogni singolo sussulto per la propria involontaria incompletezza. Come ti capisco, sorella: fai una fatica bestia, ma non è mai abbastanza. La sera arriva prima ancora che tu abbia spento la sveglia del mattino, e non importa quanto tu sia stata gazzella: i predatori ti hanno già divorato i quarti posteriori fin dai blocchi di partenza. 
Resta sempre una ciocca di capelli ingrommati da districare (“Domani mattina, è la prima cosa che facciamo!”), un libro nuovo senza copertina di plastica (“Mamma, ne manca una!”), una bambina che non tocca cibo benché tu abbia cucinato tre pietanze diverse per accontentarle tutte. Resta almeno un broncio (“Mamma, raccontami la storia della buona notte! Mamma? Sei sveglia?”), i compiti che dovevamo fare insieme ("Ma intanto tu comincia, bambina, che io finisco di lavare i piatti"), l’ora al parchetto che ti avevo promesso e che continuo a rimandare perché il parchetto mi deprime e io non posso stare ferma, devo correre, non le vedi le fauci spalancate dietro di me? 
E ogni giorno si ricomincia: non da zero, ma col carico preventivo di quello che hai lasciato indietro ieri.

Poi, però, dopo essermi immedesimata, ci ho pensato e mi sono detta: senso di colpa un cavolo! (“Mamma, non si dice cavolo…”).
Io non ho colpe. Io sono un’eroina pura e indomita e merito medaglie al valore, bonus a tre zeri, ringraziamenti collettivi da parte di tutta la comunità, riconoscimenti pubblici e il cavalierato della Repubblica. Io, proprio io, madre di tre figlie, concepite e messe al mondo senza calcoli e programmi. Senza aiuti di Stato, senza buoni per asili nido o babysitter, senza tate tuttofare. Sono dipendente statale e quindi più tutelata di altre, ma non voglio certo dovermi sentire grata per un diritto. Ho ricevuto assistenza dai parenti e dagli amici: ed essere assistita non ti pone mai in una condizione di forza o indipendenza. Ho dovuto contrarre debiti di riconoscenza inestinguibili e confrontarmi con l’amara consapevolezza che, da sola, non ce l’avrei mai potuta fare. Tutto ciò ha un peso e un costo e io ho sostenuto il primo e pagato fino in fondo il secondo.
Al diavolo gli stili di vita sani o le cattive compagnie: io vedo solo il valore, l’abnegazione, l’eroismo delle madri. E questo fin dalla notte dei tempi, fin da quando ci accucciavamo in una caverna per sgravare al buio.
Mi rifiuto di sentirmi in colpa se non riesco a far tutto; mi rifiuto di autoaccusarmi di inadeguatezza, di piagnucolare perché io vorrei tanto essere una mamma perfetta, ma come si fa se nessuno mi aiuta, perché io la teoria la so ma la pratica è troppo al di sopra delle mie possibilità.
No cari miei. Non sono io a dovermi sentire in colpa se alla fine della giornata il saldo della perfezione materna non è mai positivo. Non mi sento in colpa se, ogni giorno, sono costretta a riconoscere che avrei dovuto fare di più: perché quello che ho fatto è un miracolo che si compie quotidianamente e non sono nemmeno Dio.
Io il contributo alla Patria e al saldo demografico naturale l’ho dato tre volte e continuo a fare la mia parte ogni giorno.
Se non volete premiarmi, o almeno aiutarmi, allora non aspettatevi da me anche il senso di colpa.
Un “grazie” ci potrebbe stare.
Il Fertility Day infilatevelo su per il Ministero, invece.

martedì 20 settembre 2016

Calzini spaiati



- Solal.
- Ariane.
- Ti sei accorto che non ci sei più?
- Me ne sto facendo una ragione, Ariane.
- Stai bene senza di me?
- Sì. Sto bene. E tu?
- Anch’io. Mi sento meglio, senza di noi.
- Peccato, Ariane. Eravamo molto simpatici.
- Sì. Non proprio una bella coppia, però si rideva.
- Già. Ridevamo di noi stessi e delle stesse cose. Poi però tu, Ariane, hai cominciato a ridere di me.
- Solo perché tu hai fatto cose molto ridicole, Solal.
- Adesso non ridiamo più.
- No. Non c’è proprio più niente da ridere. Adesso è il tempo della rabbia e della delusione. Ma secondo te, era amore?
- Per me lo era, Ariane.
- Allora l’amore finisce?
- Certo. Come tutto il resto. Poi però, tutto continua, da un’altra parte.
- Forse non era vero amore.
- Ariane, se ti fa bene crederlo.
- Secondo te, è finita per colpa tua o per colpa mia?
- Per colpa tua.
- Io credevo per colpa tua!
- Impossibile. Io non ho colpe. E se ne ho avute, mi sono già perdonato da un pezzo.
- Ti manco mai?
- Sempre. Mi mancherai sempre. Però mi mancavi anche mentre stavamo insieme. Adesso almeno comincio a essere felice.
- A me manca il formato famiglia. Tu non mi manchi per niente, Solal.
- Mancheremo a quelle tre. I genitori a corrente alternata non fanno molta luce.
- Sai cosa mi dispiace? Che nel lettone, la domenica mattina, le bimbe non troveranno più una mamma e un papà che si sono addormentati stanchi, la sera prima; stanchi ma allacciati, perché le braccia, il petto, la testa non cercano altro. Perché la sfrontata certezza di essere al posto giusto non ha modo migliore di manifestarsi che in un facile abbraccio.
- Che bella frase, Ariane.
- Davvero ti piace?
- No. Mi fa cagare. Come la maggior parte delle cose che scrivi.
- A me invece piaceva quello che scrivevi. Inutilmente contorto, a volte, ma sempre originale.
- Non era contorto. Eri tu che non ci arrivavi.
- Però non scrivi più. Come mai non scrivi più, Solal?
- Sto vivendo molto, ultimamente. Fra un po’ ricomincio, stai tranquilla.
- Bene. Mi hai fatto molto male, però.
- Anche tu.
- È il mestiere dei coniugi che si separano, Solal: farsi del male ed essere peggiori di quel che si potrebbe essere.
- Avremmo potuto far meglio.
- No, non avremmo potuto. Siamo due qualunque; non è difficile ammetterlo.
- Parla per te; io sono speciale. Sei tu quella che è banale in maniera esasperante. Dio quanto sei banale. E pure stupida. Bella ma stupida.
- Sì. Forse hai ragione. Per questo adesso non stiamo più insieme. Perché tu sei troppo speciale per me. Solal?
- Ariane?
- Dio come sono felice di non dover più raccogliere i tuoi calzini sporchi da sotto il letto.
- Sento che sta per arrivare una tua metafora. Una delle tue immortali, inutili, mediocri metafore.
- No, è una similitudine. L’amore come un paio di calzini: si può spaiare. Uno si perde, l’altro resta. Solo e senza argomenti.
- Io non mi sono perso. E, soprattutto, non sono rimasto né solo né senza argomenti.
- In effetti, neanch’io.
- Bene. Ti arrendi?
- No. Voglio chiudere con una frase ad effetto. Che ne dici di: “L’amore non finisce. L’amore sparisce. Come i calzini nella lavatrice. O le forchette quando sparecchi”?
- Scusa, ho mentito. Non è vero che mi mancherai, Ariane. 
- Lo so. Ed è molto meglio così, per tutti.
- Ciao, Ariane.
- Ciao, Solal.






mercoledì 14 settembre 2016

Fiabe intimidatorie

Clementina era una bambina come ce ne sono tante: aveva due braccia, due gambe e venti dita in tutto tra mani e piedi, anche se distribuite un po' a casaccio. 

Eppure, un giorno le capitò una cosa stranissima, mai vista, un vero fenomeno paranormale: una mattina si svegliò ed era diventata monella. Così, d’un tratto, senza nessun preavviso! E nessuno riusciva a spiegarsi perché. Nell’ultima settimana, non le era successo nulla di speciale: aveva solo perso un dentino, aveva trovato un gattino e le era nato un fratellino. 

Fatto sta che la monellaggine, in quattro e quattr'otto, aveva raggiunto livelli preoccupanti; la mamma e il papà non ne potevano proprio più: era diventata una bambina impossibile. 
Un giorno l’aveva fatta proprio grossa. Aveva nascosto il fratellino dentro la cesta dei panni sporchi, in mezzo ai calzini puzzolenti di papà, e la mamma l’aveva ritrovato per caso - solo perché era una mamma che faceva spesso il bucato. 

Così suoi genitori decisero di portarla dal dottore per vedere se si riusciva a trovare una cura. 
Il dottor Cacciapulci era un dottore bravissimo, che aveva un rimedio per tutto, nel senso che in genere prescriveva un solo rimedio per tutte le malattie: una bella supposta! 
Questa volta, però, vista la gravità del problema di Clementina, la sottopose ad una visita accurata: le auscultò con lo stetoscopio le piante dei piedini, le fece dire trentatré a testa in giù e le strappò un capello per analizzarlo con la sua lente d’ingrandimento. “Monellite acuta!”sentenziò alla fine della visita. 
Anziché aggiungere, come faceva sempre, “mettiamo una suppostina”, aprì il cassetto della sua scrivania e tirò fuori una scatolina bianca; dentro c’erano due pillole tonde: una gialla e una rossa. 
Disse: “Per far passare questa brutta malattia, non basterebbero sette supposte! Ci vorrà l'antimonellotico!” 
E prese il confetto giallo. 
“Apri la bocca” ordinò a Clementina. Ma Clementina, da quando era monella, se qualcuno le chiedeva di fare qualcosa, rispondeva sempre di no; così, anche questa volta, chiuse gli occhi, aprì la bocca e cominciò a urlare: NO!”. 
Il dottor Cacciapulci non aspettava altro; lanciò la pillola da tre metri di distanza e centrò la bocca spalancata di Clementina, che la dovette inghiottire. 
La medicina ebbe subito uno strano effetto: la bocca di Clementina era rimasta aperta, a forma di O, la “o” di “NO”, per l’appunto. 
Il dottor Cacciapulci la guardò tutto soddisfatto; la mamma invece era preoccupata. 
“Ma non le farà male?” chiese. 
“Niente affatto. Me la riporti tra una settimana, vedrà che starà già meglio”. 
Clementina, effettivamente, stava molto meglio, almeno per quel che riguarda la monellite: provateci voi a fare dispetti quando non potete mai, nemmeno per un secondo, chiudere la bocca! 
La bocca aperta è un grosso inconveniente: per prima cosa non si riesce a parlare; e poi, è come quando lasci una finestra aperta, prima o poi qualcosa entra in casa: api mosche zanzare, polvere cartacce e foglie secche e qualche volta anche una rana. 
E anche nella bocca sempre aperta di Clementina entravano tutte queste cose, e lei aveva un bel daffare a farle uscire - soprattutto la rana - perché quando non puoi chiudere la bocca, non puoi neanche sputare (provare per credere). 

Insomma, Clementina era sicuramente guarita, ma non si poteva dire che stesse bene o che fosse contenta. Non era più nemmeno andata a scuola. Non aveva nessuna voglia di sapere cosa avrebbero detto le maestre e i suoi compagni se si fosse presentata in classe con la bocca spalancata piena di insetti, cartacce e una rana. 

La settimana, infine, passò. I genitori di Clementina riportarono la loro figliola dal dottor Cacciapulci, che si sfregò le mani tutto contento quando vide quanto bendidio si era raccolto dentro la boccuccia spalancata della sua paziente. 
Armato di pinze, estrasse uno a uno insetti, foglie secche, palline di carta e un tappo di sughero; la rana saltò direttamente dentro la sua borsa degli strumenti. Quando la bocca fu ripulita, il dottor Cacciapulci prese di nuovo la scatolina bianca; ma questa volta estrasse la pillolina rossa. La mise sulla lingua di Clementina e, oplà, la bocca come per magia si richiuse. 
Clementina non stava in sé dalla gioia: cominciò a sputare, soffiare ridere e cantare, a fare tutte quelle cose, insomma, che si possono fare quando la vostra bocca risponde agli ordini! 
“Allora dottore, è guarita?” chiese la mamma tutta ansiosa.
“Ditemelo voi: ha più fatto la monella dopo la somministrazione del farmaco giallo?” disse il dottor Cacciapulci. I genitori di Clementina si guardarono e fecero segno di no con la testa. 
“E tu, signorina, cosa mi dici? Ti senti ancora monella da qualche parte?” domandò il dottore a Clementina. La quale, per tutta risposta, si tappò la bocca con entrambe le mani. 
“Bene, bene, bene”. Il dottor Cacciapulci si alzò dalla sedia, aprì un armadietto che si trovava dietro la scrivania e mostrò loro una pila di scatoline bianche. 
“Se si dovesse ripresentare il problema, dovremo ripetere la terapia” spiegò. 
Clementina cominciò a sudare. 
“L’unico inconveniente di questa medicina, è che si può somministrare solo sei volte” sospirò il dottor Cacciapulci. 
“E cosa succede la settima volta?” chiese la mamma un po’ preoccupata. 
“Niente, le daremo questa”. 
Il dottore aprì l’ultima scatolina: dentro c’era solo una pillola gialla. Clementina si mise a tremare. 
“Ma senza pillola rossa la bocca non si chiuderà più!” esclamò la mamma. 
“Ebbene, sì”, disse il dottor Cacciapulci, e infilò soddisfatto i pollici nei taschini del camice. “A meno che la signorina qui non preferisca continuare a fare la monella...” 
Clementina stava per mettersi a urlare “NOOOO!!!”, però si ricordò in tempo della mira infallibile del dottore. Così si tappò la bocca con entrambe le mani e scosse forte la testa, in segno di energico diniego. 

Ci credereste? Da quel momento, Clementina non si svegliò più monella e la mamma, il papà, il fratellino e la rana ne furono molto ma molto felici. 

(Modalità di somministrazione: raccontare la storia la sera prima di andare a dormire e, al momento di spegnere la luce, poggiare con nonchalance uno smarties giallo sul comodino).

giovedì 1 settembre 2016

Mani

- Mamma, quando tu non ci sei io non sto bene – mi dice la piccola di quattro anni, al telefono. 
La voce non trema: è un dato di fatto, registrato e comunicato. Lo so che sta bene. È coi nonni al mare, è contenta, si diverte. No, la sua è più una considerazione esistenziale e vale anche al contrario: nemmeno io sto bene, quando loro non ci sono. (Ok, quando non ci sono per più di una settimana). 
Io non sono le mie figlie, non sono solo la loro mamma; vengo da lontano, sono nata prima dei miei tre parti. Riguardo alla mia identità ho le idee abbastanza chiare. L’esogestazione è finita da un pezzo; ho imparato dove finisco io e dove comincia ognuna delle tre. E se lo so io, lo sapranno anche loro, a tempo debito. Mi pare una buona cosa. 
Senza di loro, dunque, io sono sempre io. Però, senza di loro, io non potrei vivere. 
Non è una frase fatta. Per me, almeno, non lo è più da questa estate. 
Ho avuto una fortuna immensa, il mese scorso, e ne sarò sempre grata al dio delle madri: la fortuna di poter raccontare una disavventura capitatami con la figlia mezzana, un brutto momento che è diventato presto aneddoto, racconto, non tragedia. Non la fine della mia vita. 
Una brutta febbre virale, sintomi trascurati, una capatina al pronto soccorso, giusto per essere sicuri che non fosse niente di grave. E poi, le condizioni che si aggravano di colpo e la discesa agli inferi. Una dottoressa con poca esperienza che interpreta i sintomi clinici in maniera un po’ scolastica. Pensavo avesse il virus intestinale, invece, nel giro di mezzora, mi ritrovo ad osservare su un monitor il cranio di mia figlia scansionato dalla Tac. E poi una corsa in ambulanza a sirene spiegate, verso un ospedale meglio attrezzato per le emergenze. 
Cinque ore è durato il mio viaggio nell’Aldilà. Poi è finita bene: non era quel che temevano, la bimba si è ripresa rapidamente. 
Ma cinque ore di immersione integrale nell’abisso della paura, del nulla, della fine, non lasciano indenne nessuno. 
Ho capito, ho visto, che non resta vita, senza lei o le altre due. Ho visto che non resta forza, benché ci si regga in piedi e si riesca a parlare, prendere decisioni, aspettare i risultati degli esami. C’è solo una paura cieca, da animale braccato senza via di scampo. Sai, lo sai subito, che finisce tutto lì. E che non esistono esseri umani al mondo, a parte loro tre, senza i quali finirebbe tutto. E sono certa che per provare l’orrore e la paura che ho provato io in quelle ore, bisogna essere madri. O padri. Non è dolore, non è privazione: è semplicemente la fine. 
L’ho vista, la fine, sulle palpebre di mia figlia che diventavano sempre più sottili e trasparenti, appiccicate ai bulbi oculari. L’ho vista mentre stringevo le sue mani e osservavo le unghie, le dita, quella perfezione creata dal nulla che sembrava stesse andando via. L’ha vista anche suo padre, lontano mille chilometri, senza quella manina tra le sue. 
Ho appoggiato la guancia sulla fronte di mia figlia e quella mano si è sollevata e si è posata sulla mia spalla, in un abbraccio lieve come una piuma che scappa da un cuscino. Leggera, ha spezzato il mio cuore in quel preciso istante. 
Che brutta avventura. Che bello poterla raccontare, sani e salvi. 
Ma da qualche parte, là fuori, tra i calcinacci e le macerie, sott'acqua, nei letti d’ospedale, ci sono storie che finiscono in un altro modo. Ci sono storie che finiscono. E io adesso so cosa vuol dire. Ma mai, mai avrei voluto saperlo.