mercoledì 28 agosto 2019

Razzismo buonista

Mi è capitato di avere pensieri razzisti, in questi ultimi tempi.
Accanto all'ingresso del mio palazzo, c'è un portico che viene abitualmente usato dai senzatetto come luogo di riparo per la notte, in tutte le stagioni. Fra questi senzatetto, ce n'è uno fisso. Si chiama Rhal, è un giovane bengalese coi capelli lunghi. Quando torniamo da scuola, io e le mie figlie lo troviamo sotto casa; ci saluta sempre e ogni tanto mi chiede una sigaretta. A volte gliela offro direttamente io ma non è detto che lui l'accetti; se ne ha già di sue, mi dice “no, grazie”: non fa scorta a mie spese.
Non gli ho mai dato soldi, né lui ne ha mai chiesti. A Natale volevo regalargli dei maglioni ancora nuovi, con lo scontrino attaccato. Non li ha voluti, mi ha detto di darli ad un altro senzatetto che dormiva di fianco. Prende solo quello che serve, Rhal, e ogni tanto è lui a offrire qualcosa; si sporge dalla ringhiera con un sacchetto in mano e chiede a mia figlia “Piccolina, ne vuoi un po'”? E sono noccioline o salatini, di cui sembra essere ghiotto. A lei non piacciono le noccioline ma io gliele faccio prendere, anche se poi non le mangia, per fare contento Rhal.
Certo, a una radical chic buonista come me fa comodo avere un Rhal sotto casa, così posso sentirmi tollerante, al costo di qualche sigaretta.
Quando entro nel cortile del mio palazzo, invece, mi capita di incrociare anziani condomini romani che, in questi due anni, non hanno mai risposto al mio saluto e a quello delle mie bambine. Uno di questi vecchietti, che probabilmente ha vissuto male e troppo a lungo, un pomeriggio, da dietro una finestra socchiusa, ha lanciato un uovo addosso ai bambini che giocavano in cortile. Che le loro madri se li portino al parco, ha detto al portiere.
Confesso che, in certi momenti, ho sognato che questi malefici vecchietti senza più permesso di soggiorno tra gli esseri umani venissero tutti rinchiusi in centri di prima accoglienza. Solo i vecchi romani, però; perché in dodici anni di vita in Veneto, io di gente così non ne ho mai incontrata: lì gli anziani sorridono alle mamme coi bambini.
Quest'inverno, sempre a Roma, mentre tornavo a casa in bici dopo un consiglio di classe, all'altezza di Porta Maggiore la sciarpa mi si è impigliata nella catena e la bici si è bloccata. Ero accanto ad una fermata del tram e subito mi si è avvicinato un signore, un vecchio straniero, curdo forse, che aspettava il 14. Ha capovolto la bici e, con grande pazienza, ha liberato la catena, sporcandosi le mani di grasso. Nel frattempo il suo tram è passato e lui lo ha perso. L'ho ringraziato e sono corsa via e, mentre mi affrettavo verso casa, ho pensato con rammarico che non gli avevo nemmeno chiesto come si chiamava, che non mi ero presentata: la gentilezza deve avere un nome, la gratitudine pure.
E mi sono ricordata di una cosa che mi era successa l'anno prima, appena arrivata in questa città così grande e cinica; ero andata dal ferramenta per comprare degli attrezzi che mi servivano ad aggiustare la bici. Fuori dal negozio, dopo aver armeggiato inutilmente nel tentativo disperato di montare il seggiolino, vengo soccorsa da un pensionato romano, che se ne stava lì a osservare la scena. Il vecchiarello riesce con non poca fatica a montare il seggiolino e io resto incantata da tanta disinteressata cortesia. “Grazie! È stato così gentile da parte sua!” gli dico, grata, “Non so proprio come sdebitarmi!”.
“Con cinque euro”, mi fa lui.
Ora, sarebbe facile giungere a conclusioni errate. Fortunatamente, però, noi buonisti della prima ora sappiamo evitare le generalizzazioni razziste.
In questo mi aiutano i vecchietti che giocano a carte da Necci, il bar dove vado a fare colazione la mattina, prima di andare a scuola, e a preparare le lezioni quando non ho le prime ore. Loro fanno le partite a briscola al tavolo vicino, io leggo e prendo appunti. All'inizio salutavano e basta. Adesso si avvicinano e mi porgono il giornale, dopo averlo letto. “Che lezione prepariamo oggi, professoressa?”, si informano ogni volta, con cavalleresco interesse.
Questi vecchietti sono miei amici, sono romani, sono gentili.
Come Rhal e il vecchio curdo che mi ha aggiustato la bici, perdendo il suo tram.
Menomale che il mio sogno sui centri di accoglienza non si è avverato.

Mensa scolastica

Quando, qualche giorno fa, ho presentato ai miei alunni di quinta liceo una lista di romanzi della letteratura russa, inglese e francese dell'Ottocento, da leggere entro Natale, c'è stato un inaspettato ammutinamento. 
"Sono troppi, prof"!"Vi chiedo di sceglierne uno, non dovete leggerli tutti"."Ma un romanzo intero, prof, è troppo. Noi dobbiamo anche vivere!", mi ha detto un'alunna, risentita. Vorrei poterla convincere che la lettura non esclude la vita. Ma non so trovare le parole, perché io non la capisco. Vorrei dirle: ma io leggo come respiro. Come si fa a vivere senza respirare? Tu come puoi vivere senza leggere?E lei, a quel punto, non capirebbe me. Vorrei avere la credibilità per dirle: vivi, adesso, vivi senza leggere ma, fra un po' di tempo, la sola vita non ti basterà ad affrontare gli anni, i problemi, il dolore, l'abbandono, e nemmeno il passaggio della felicità che, com'è sua costituzione, non dura. Vorrei dirle che la vita non basta ad affrontare la vita. I libri non garantiscono il successo e non aggiogano la felicità, è vero. Eppure, senza di essi, l'infelicità è più densa. Lo vedo succedere attorno a me, in continuazione. Vedo che l'amore non basta, la famiglia non colma, il lavoro non può possederci completamente, la fede non è di tutti. Gli amici aiutano. Come i libri. Non dico di sostituire le persone con la letteratura. Dico che la ricchezza è scudo contro i colpi del destino; la ricchezza intesa come umanità, come intelligenza del cuore. E leggere rende l'uomo più uomo; non scava solo dentro, come le esperienze, ma aggiunge, riempie, offre lo scudo per difendersi, le armi per attaccare il pregiudizio e la disumanità. Le persone più infelici che ho conosciuto non leggono. Le più vuote, le più disarmate. Le più disperate. Per questo, quando gli alunni dicono che non possono leggere perché devono vivere, più che farmi arrabbiare, mi preoccupano. Temo per loro: li vedo follemente determinati ad arrampicarsi a mani nude lungo una parete liscia, senza una corda, senza scarponi chiodati, senza puntelli a cui aggrapparsi nella salita. Li vedo che guardano in alto, sprezzanti di me e del pericolo, sicuri che la forza che hanno basterà a raggiungere la cima o che la roccia offrirà sempre un appiglio insperato. Ma so che, prima o poi, guarderanno giù. E quello che vedranno sotto di sé, irrecuperabile, precipitato, li spaventerà a morte, come ha spaventato e continua a spaventare ognuno di noi. A mani nude dovranno continuare a salire o fermarsi ed aspettare. Ed è una follia non essersi muniti prima di qualcosa che aiuti a dare un senso all'abisso. È spaventoso che nessuno degli adulti dica loro che quel percorso a senso unico fa tremare soprattutto chi è solo, chi è senza parole perché non ha conosciuto altre vite all'infuori della propria o di pochi altri prossimi.La lettura, la musica, il cinema, il teatro, l'arte, la danza, la matematica, le scienze non fanno altro che raccontare storie. Altre storie: le storie degli altri. Gli altri e le loro storie sono ciò di cui abbiamo bisogno per affrontare quella salita, che altrimenti dovremmo portare a termine da soli. E visto che si è soli quando si entra in questa vita e quando se ne esce - e quando si compiono delle scelte - perché condannarsi alla solitudine anche durante quel tragitto così impervio? La lettura ci rende umani, dicevo. Conoscere la storia degli altri ci aiuta a non abbandonarli, a non respingerli: a com-prenderli. Più leggo, più comprendo, più accolgo, più contengo. Mi fa paura chi non legge, così come mi fa paura chi non comprende altro che la propria storia. Mi fa paura chi dice: prima la mia storia. Prima devo vivere. Se non hai il tempo di far entrare nemmeno un libro, nella tua vita, per chi o cosa ci sarà spazio, che non sia tu o un'emanazione di te? Per questo sono grata a chi legge. Per questo leggo. La parola “alunno” viene dal verbo latino “alo”, che significa “nutro”. Gli “alumni” erano i bambini nutriti e allevati da qualcuno che non fosse il padre o la madre. Bambini di altri, allevati da altri. Come facciamo noi insegnanti con i nostri “alumni”: a disposizione abbiamo non il “pan de li angeli”, ma il pane degli uomini, le storie di tutti noi e del nostro mondo. Nessuno deve essere escluso da quella mensa.

lunedì 2 luglio 2018

Captain Solo

Ogni mattina lui è là, al suo posto: troneggiante, dinoccolato, splendido. Pattuglia il corridoio sfiorando la parete con la spalla; si ferma ogni tanto a guardare il soffitto, osserva una ragazza che si getta ridendo in braccio a una compagna, oppure mangia la sua merendina con la concentrazione di un entomologo. 
La prima volta che l’ho visto, era seduto qualche fila davanti a me, in corriera, mentre accompagnavo un paio di classi a visitare un museo. Solo. Con un quaderno sulle ginocchia e la penna in mano, riempiva pagine su pagine. 
Se gli rivolgi la parola, piega il capo e ti porge l’orecchio, come se non sentisse bene. Invece è perché si concentra su quello che stai per dirgli. E’ importante ascoltare, quando qualcuno ti parla. Arrota la “r” e ha una pronuncia nitida come una mattina di febbraio, fatta di vocali altezzose e consonanti taglienti. Si esprime come un gentiluomo d’altri tempi, fuori tempo ma non fuori sincrono. 
Ed è bellissimo. Saranno gli occhi scuri e grandi, le labbra disegnate a broncio, il naso come una torre d’avorio. Saranno quelle gambe lunghissime, le spalle strette, quella tensione da elastico tirato, non ancora al limite ma pronto scattare con morbidezza. Non c’è niente di disarmonico in lui, è solo ancora bambino e arrotondato e dolce. 
Mi sembra un re, un cigno altero, un nobile in esilio che non ha patria in cui tornare. “Soffre di un leggero autismo”, mi ha confidato la collega.
Al cambio d’ora, quando passo davanti alla sua aula, non manco mai di sbirciare dentro: e lui è sempre là, in piedi vicino alla cattedra, che scruta la lavagna come se fosse un orizzonte gravido di eventi. 
Mi sembra speciale e bello. Speciale come gli altri ragazzi o come le mie bambine. E’ un’astronave con un uomo solo al comando, perduta su rotte intergalattiche, corteggia buchi neri e sfida l’antimateria. Se ha paura, non lo dà a vedere. Credo che sia una delle cose più belle che io abbia mai visto. Bello come la solitudine, bello come i mille modi per dire ti voglio bene, bello come un figlio. 
Gli altri sciamano e ronzano. Lui suona una musica senza note di cui ho una nostalgia infinita. 
Se fosse mio figlio, tremerei per lui, perché è fragile e duro come un albero maestro in mezzo alla tempesta. 

venerdì 4 agosto 2017

È qui la festa?






Il giorno della Festa della Mamma, il mio cervello affaticato ha registrato, senza elaborarlo subito, un fenomeno peculiare sui social: una valanga di post buonisti che si premuravano, con tatto e sensibilità, di rassicurare le donne senza figli del fatto di non essere meno donne, quel giorno, solo perché non sono mamme e che, poverine, non si sentissero escluse dall'eccesso di festeggiamenti per le altre, le elette che hanno figliato. 
Aspetta un attimo, ho detto tra me e me. 
Post per proteggere le non mamme dalla Festa della Mamma??? 


Che luogo contraddittorio che è, questo mondo social. O leoni da tastiera o virtuosi del minuetto empatico. 
Allora, per lo stesso motivo, il giorno della Festa dei Nonni le persone anziane non nonne dovrebbero essere consolate perché nessuno le festeggia. Per non parlare poi di quella inutile Festa dei Morti con cui ogni 2 novembre si urta impunemente la suscettibilità di tutti gli altri; che poi, da morti, all'improvviso diventano tutti santi ed eroi mentre i vivi non se li fila nessuno e anzi prendono solo mazzate. 

Tra l'altro, faccio notare che il giorno della Festa del Papà non compaiono pipponi su Facebook per consolare i poveri maschi senza figli, perché a nessuno viene in mente che possano sentirsi meno uomini per il fatto di non essersi riprodotti. 
Una femmina invece non può semplicemente essere triste o pentita  o del tutto in pace con sé stessa per non aver avuto o voluto figli: deve per forza sentirsi meno donna. 

Lì per lì, leggendo quei post protettivi e delicati, mi sono sentita in colpa e ho messo mi piace a tutti, nel timore di dare l'impressione, in quanto triplice mamma festeggiata, che me la stessi tirando. Poi ci ho ripensato.

Se vogliamo proprio dare importanza alla Festa della Mamma e a tutte le feste consimili (io non gliene do, per dire), allora facciamolo in maniera letterale e senza prenderci così maledettamente sul serio. 

Senza dover ogni volta partire per la Crociata delle femmine la questione è piuttosto banale: sei mamma ed esiste la Festa della Mamma; le tue bambine sudano da settimane per imparare a memoria poesie e per comporre indimenticabili letterine: che facciamo, non gliela vogliamo dare la soddisfazione di prenderci egoisticamente i loro bacetti di Giuda, ringraziamenti, abbracci e baci salivosi, senza per questo temere di fare della volgare ostentazione? 

Non saremo da santificare per aver figliato, ma ogni giorno ci strappiamo striscioline di pelle dal culo, per crescere questi pezzi di carne che ci sono toccati in sorte; uno straccio di ringraziamento, anche solo così, pro forma, ci sta tutto, dico io. 
Posto che posso sentirmi in colpa tutto il resto dell'anno, per aver avuto la fortuna sfacciata di farmi abitare il corpo e la casa da gente incapace di farsi il bidet da sola, il giorno in cui quelle per cui mi faccio il culo a strisce sono obbligate dalle istituzioni a dirmi un semplice, educato “grazie”, io me lo prendo e me lo godo. Punto. È così brutto? È così fuori luogo istituire una festa apposta per ringraziarmi? Forse che senza quella festa io non farei quello che faccio? 

Perché ammettiamolo: essere madre non è un merito. È fare la madre, che lo è: e se questo merito viene riconosciuto, nessuno deve aversene a male. 

In effetti, non è che, da quando sei mamma, all'improvviso ti devi sentire come “una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare”.  
Sei più trascurata, più stanca, più insicura e coi polpacci pelosi per via della ceretta fatta in casa, però hai una scusa fantastica per tutto questo (io ne ho tre) e quando pensi alle cose meravigliose che potresti fare, se non avessi n bambini di cui occuparti, ti consoli cantando la mistica della fusione madre-figlio. 
Ma in quel momento stai solo rosicando d'invidia per le altre, quelle che escono, partono, dormono, trombano senza chiedere il permesso e senza avvisare. 

Una donna però non è i suoi figli e le prime a scordarselo sono proprio le donne, madri e no. In qualunque posizione ti trovi rispetto ai compiti procreativi, la faccenda è sempre subdola: se non hai figli, ti devi sentire per forza incompleta; quando ne hai, devi annegare nel senso di colpa, se per caso nella vita non ti senti realizzata e felice per il semplice fatto di aver procreato.  

I risarcimenti politically correct sono un po' come quando costringi i tuoi figli a mangiare tutti i broccoli che hanno nel piatto perché i bambini in Africa muoiono di fame: non servirà a fare in modo che broccoli e bambini siano distribuiti nel mondo in maniera più equa, però almeno sei a posto con la tua falsa coscienza. 

Io, se non avessi figli, la seconda domenica di maggio mi ci pulirei il culo, con le manifestazioni di solidarietà consolatoria su Fb. 
Ma per me è facile: io sono una vera donna, da ben prima di diventare madre. 
E, se nella vita non sono riuscita a combinare granché, non è certo per merito delle mie figlie.

martedì 25 luglio 2017

La sturateste

E qualunque cosa succeda, io continuerò a insegnare ai vostri figli la differenza tra un soggetto e un complemento oggetto e continuerò a predicare, come un Cristo nel deserto, l'importanza dell'analisi logica. 
Non mi faranno desistere le loro domande piene di scherno:
“Prof, ma a che serve 'sta roba?”.
"A sturarvi le teste". 
Tra uno sbadiglio, un frullìo di Fidget Spinner e un lancio di bottiglietta sul banco, scopriranno che in analisi logica, più che la risposta giusta, conta la domanda giusta. 
E quella domanda non sempre è la prima che ti viene in mente, per cui devi imparare a fartene altre. 
"Posso andare in bagno?"
Le loro facce stupite quando si accorgeranno che la differenza tra complementi è ricchezza, è scelta, è libertà! 
La libertà di capire, per non dover credere ciecamente. La libertà di riuscire a collegare una causa al suo effetto, la libertà di sapere chi compie un'azione e chi invece la subisce, in modo da poter attribuire correttamente le responsabilità, distinguendo la vera vittima dal carnefice occulto. 
"Guardiamo un film sulla LIM, prof?".
Ogni giorno insisterò perché i vostri figli imparino a coniugare i verbi attivi e passivi e sarà noioso per loro e frustrante per me. O viceversa. C'è chi capirà subito, chi il giorno dopo avrà dimenticato e bisognerà ricominciare daccapo: e la depressione è sempre dietro l'angolo. La scuola non è una ludoteca di Stato, checché ne pensino alcuni genitori e tutti gli psico-pedagoghi che tengono in ostaggio il Ministero dell'Istruzione da almeno dieci anni. Al diavolo le competenze: i miei alunni devono capire e devono sapere; non devono competere - se non durante le gare dei verbi. Anche perché, chi arriva ultimo paga pegno.
"Prof, ma lei lo guarda Uomini e donne?"
Non mi arrenderò, nemmeno se il mio stipendio dovesse rimanere inchiodato su quella soglia di indecenza da cui non si stacca da anni, impedendomi di ricorrere al chirurgo estetico adesso che sono ancora in tempo.  
Lo farò io, che sono un'insegnante, perché è a me che tocca spiegare il predicato nominale, non a voi genitori. Voi li potrete coccolare, fare divertire, consolare, portare al cinema e al museo. Ma solo io potrò dire ai vostri figli che l'analisi logica e la grammatica sono bellissime.
(Grasse risate degli infedeli)

Belle e difficili. 
Ma a far le cose facili siamo buoni tutti, mentre solo la fatica di un'impresa che richiede impegno e concentrazione - come capire il teorema di Pitagora o riuscire a fare atterrare in piedi la bottiglietta dell'acqua dopo averla fatta piroettare in aria - può dare vera soddisfazione. E io voglio che i miei alunni questa soddisfazione se la prendano presto, già oggi, con le mie frasi alla lavagna. 
"Che c'è scritto là, prof?"

Sarà dura, ma dobbiamo farlo, perché senza analisi logica non può esserci democrazia, poiché non vi sarebbero soggetti, ma solo complementi oggetti o capre che credono agli Illuminati e alla teoria della Terra piatta.
  
Voglio che i vostri figli mi seguano lungo questi impervi "sentieri per capre" (questo è Saba, non perdete tempo a googlare); li condurrò in mezzo a una radura luminosa dove potranno trovare riparo in ogni momento della loro vita. In quel luogo si colgono i significati, si pongono le domande giuste, si trovano, forse, le risposte. Il luogo in cui tutti noi, democraticamente, avremmo il diritto e il dovere di arrivare.
"Prof, posso andare in bagno, ora?"

E, mentre lo farò, mi sentirò al mio posto. 
Non è una missione, la mia: è uno  di quei tanti lavori - come lo spazzino e il parrucchiere - che, se fatti bene, possono contribuire a rendere il mondo un posto migliore. 
E sarà anche grazie  a me se, un giorno non troppo lontano, a nessuno verrà in mente di legare in un'unica sequenza pre-logica i vaccini, lo ius soli e gli sbarchi dei clandestini. 



sabato 8 luglio 2017

So' troppi

“Sei matta a volerti trasferire a Roma? È una città troppo difficile e con un sacco di problemi. Meglio Milano”, mi ripetono più o meno tutte le persone che conosco, da quando sanno che mi voglio trasferire lì.
Esagerati, pensavo io. Poi sono venuta a Roma, dove da quattro giorni cerco a muso duro una casa in affitto per me e le mie bambine. La casa non l'ho ancora trovata, però ho già capito un sacco di cose di questa città: prima di tutto, che la situazione catastrofica che mi prospettavano in molti è, in realtà, ampiamente al di sotto della realtà.
In effetti è peggio di quanto pensassi.
E poi ho capito che i problemi sono tanti, è vero, ma la causa, secondo la gente di qua, è una sola. Perché i romani hanno una acuta percezione dei mali che affiggono la città, mica sono un popolo assuefatto o anestetizzato, no; è sulle cause reali che sono tutti un po' confusi o, meglio, convinti che il colpevole sia uno solo, sempre lo stesso.
E siccome il colpevole non è mai uno solo, questo significa che tutti gli altri la fanno franca.

Esempi.

1. L'agente immobiliare maschio, Esquilino.

- Allora, signora, che gliene pare?
- A dire il vero, per un seminterrato di sessanta metri quadrati, 900 euro mi sembrano un po' tanti. E poi davanti casa c'è la spazzatura sui marciapiedi e una puzza terribile.
- Ho capito, signo', ma lo vede in che Stato viviamo? I proprietari qua a Roma fanno una vita terribile! Si devono ripagare dei rischi! Qui, se l'inquilino non paga l'affitto, il proprietario non lo può sfrattare.
- E certo che non paga... 900 euro per un seminterrato!
- ...E allora lo Stato che fa? Anziché trovare all'inquilino in difficoltà una casa alternativa, oppure pagare al posto suo i soldi dell'affitto, così il proprietario, poveretto, non perde i suoi 900 euro al mese...
- Poveretto il proprietario, certo.
- ...anziché aiutare gli italiani, gli dà le case popolari agli immigrati. E poi signo', è seminterrato, sì, ma guardi quant'è luminoso!
- Sì ma in bagno ci sono solo il water e il bidet. Dove le lavo le mie figlie, senza vasca e senza doccia?
- Quali figlie, mi scusi?
- Le mie tre figlie.
- Ah no, me lo doveva dire prima! Il proprietario preferisce non affittare a gente con minori al seguito, che poi se lei non paga chi la sfratta più, co' tre figlie? Mannaggia a tutti 'sti immigrati, mannaggia. Però gli animali li accetta. Ha animali, lei?
- Sì, un gatto.
- Per il gatto non c'è problema. Modestamente, noi romani siamo famosi nel mondo per come sappiamo accogliere i gatti. Certo, con tutti questi cinesi, non è che possiamo stare tranquilli al cento per cento, ma siccome i cinesi comprano le case in contanti, bisogna portare pazienza, che vuole.

2. L'agente immobiliare femmina, Prati.

- Questo non è mica un quartiere così, come tanti altri, sa, signora? Questo è centro centro, eh? Pure io abito qui a Prati; venga, le faccio vedere, tanto non ho altri appuntamenti per oggi. Guardi quanti bei negozi fini. Qua poi ci sono le meglio scuole, per le sue figlie; i loro compagnetti di classe saranno tutti figli di avvocati e funzionari, tutta gente di livello: il mio vicino di casa è un miliardario e ha una casa enorme, modestamente gliel'ho venduta io. Non è perché vede tutte queste bancarelle sul marciapiedi, che manco se po' passa' a momenti...io non sono razzista, guardi, ma tutti 'sti immigrati nel quartiere uno non ce li dovrebbe fare stare! Non si può, ho capito che hanno la guerra, ma proprio qua a Prati devono venire, con le loro bancarelle?
- Mi scusi, non capisco, ma stanno qui senza permesso e senza licenza, tutte queste bancarelle? E perché i vigili non li fanno sgomberare?
- I vigili! E mica si possono mettere a risolvere tutto i vigili, signora. Questi, qui, non ci devono proprio venire! Non li possiamo fare entrare tutti in Italia! Che poi la licenza mi pare che ce l'hanno, quindi sono in regola e non gli puoi fare niente. Però non si può vedere tutto questo degrado. Che poi mi si deprezzano le case, a me. Lei non è di Roma e non può capire: il problema è a monte. Questi vanno aiutati a casa loro, non a casa nostra!

3. Il pensionato alla fermata dell'autobus, Torpignattara. 

- Buongiorno, mi scusi: come mai non passano gli autobus? Sono qui da mezzora e non se n'è visto nessuno. C'è forse sciopero?
- Ma che sciopero, signora, qua fanno come je pare. Ieri passavano, oggi no. Tocca aspettare.
- Ma ci sono quaranta gradi e non c'è nemmeno una tettoia sotto cui ripararsi. Questo non è un servizio di trasporto pubblico da paese civile!
Il pensionato scuote la testa e mi lancia un'occhiata piena di consapevolezza e di qualcos'altro: stanchezza, rabbia, rassegnazione, tutto mescolato a formare un grumo indegno che gli accende la pupilla.
- I porti, signora.
- I porti?
- Dobbiamo chiudere i porti. Questi, qua, non ci devono più arrivare. Guardi un po' in giro, li vede quanti sono?
- Sì va bene, ma che c'entra? Mica li guidano i bengalesi gli autobus.
- Sì ma so' troppi! Poi quando passa l'autobus salgono tutti, e per me e per lei non c'è più posto! Dobbiamo chiudere i porti! Ma quelli che governano da quest'orecchio non ci sentono, perché a loro gli conviene farli entrare, così poi dicono che nun ce stanno i sordi pe' mette' l'autobus nuovi...

Ecco; questa è la pancia della città, non la testa. Ma è una pancia esasperata, che borbotta e mugola e non ragiona; è rappresentativa del Paese intero e non ne può più. Certo, fare uno sforzo razionale e concatenare in maniera logica cause e conseguenze potrebbe portare a scoprire che non sono gli immigrati l'origine di tutte le vessazioni a cui la gente comune è quotidianamente sottoposta. Ma gli sforzi razionali dovrebbe farli la classe politica, che invece o arruffa il pelo di quelli che non sanno emettere che un sordo brontolio di pancia, oppure cerca di calmarli sventolando mezzo osso (aiutiamoli a casa loro etc etc).
E poi ci sono gli altri, quelli che continuano a perseguire i propri interessi e a cui fa comodo che la gente non riesca a vedere con chiarezza che chi ci guadagna non sono quelli che occupano i marciapiedi con le bancarelle (gli stranieri), ma coloro i quali quelle licenze le possiedono o le concedono (che sono invece italiani). I palazzi abitati da stranieri impilati uno sull'altro, perché ai proprietari conviene così, portano degrado e miseria, ma di chi è la colpa? 
Alla politica pre-logica e agli altri, il problema dei migranti in fondo fa comodo: è il nuovo oppio dei popoli, è l'osso di plastica da far mordere perché la bestia incatenata si sfoghi e non le venga in mente di girarsi per vedere di chi sono le mani che stringono saldamente quella catena.


(Trova il colpevole:  il sacchetto della spazzatura è stato lanciato in direzione cassonetto - che è vuoto - oppure il cassonetto era pieno e il camion della spazzatura lo ha svuotato senza raccogliere quello che era rimasto a terra? Me lo sto chiedendo da cinque giorni).

martedì 27 giugno 2017

Zòllere di felicità.

Non è possibile che, a quattro anni e mezzo, questa bambina debba ancora dormire nel mio letto, attaccata a me come un mollusco alla sua valva, capace di addormentarsi solo se ci sono pure io nel letto e dopo la lettura della fiaba più lunga del libro di fiabe (“Vuoi che ti canti una canzone?” “Per favore, no, mamma!”).

Ieri sera ho cercato di farla ragionare, mentre lei frullava nel letto come un minipimer impazzito, mi stampava ripetutamente i piedini sullo sterno e mi sfruculiava sotto la maglietta alla ricerca del suo neo preferito. 
- Voglio il mio neo – piagnucolava. 
- Smettila di lagnare. Questo neo è mio, non tuo. Non vedi che ce l'ho io? Quindi è mio. 
- E allora perché tu dici “Questa patata è mia, me la mangio!”, se la patata è mia? Guarda, ce l'ho io!
E squaderna le gambe in una perfetta spaccata.
Tossicchio piena di imbarazzo. La carognetta mi ha fregata. Devo stare più attenta. 
- Comunque, Cocò, lo sai, vero, che quando ci trasferiremo nella nuova casa, tu avrai un lettino tutto tuo e dormirai da sola, senza la mamma, come fanno le sorelle? 
Risatina di scherno. Mi guarda con l'aria di una che non ci casca: è uno scherzo, vero? 
- Ascolta. Le tue compagnette dell'asilo... 
- Vuoi dire Emmafavero (nome e cognome in un unica emissione di fiato), Laura, Alessia e Aurora? 
- Sì, loro. Queste tue amichette, che tu sappia, dormono nel loro letto da sole o fanno la nanna nel lettone? 
- Non lo so. 
Fa la vaga, ora. 
- Allora perché non glielo chiedi, domani mattina? Scommetto che ognuna di loro dorme nel suo bel lettino, da sola, come fanno i bimbi grandi come te. 
- E va beneee - si esaspera subito lei - Glielo chieeedoo! 
Mi gira le spalle, piccata. Sa dove voglio andare a parare. 
Bene. Ho scelto il modo giusto: deve arrivarci da sola. Non posso sradicarla, spostarla in un'altra città, in un altro asilo e poi schiaffarla a dormire da sola in un letto, senza prima prepararla psicologicamente e nel modo più dolce e graduale possibile a quello che l'aspetta. 
Che poi, quando cerco di fare l'autoritaria e pretendo cieca ubbidienza PERCHEIOSONOLAMAMMA, in genere finisce che sono io a chiedere scusa e implorare il loro perdono. 
Mai confondere l'autorevolezza con l'autorità. Soprattutto se non si possiede né l'una né l'altra.

All'improvviso si gira. 
La luce nei suoi occhi non mi piace. 
- Mamma? 
- Sì, zòllera? 
(La chiamo “zòllera” ogni volta che ritrovarmela tra i piedi mi fa lo stesso effetto di scoprire le formiche nel secchio dell'umido.) 
- Lo sai perché le mie amiche dormono nel loro lettino e non con la loro mamma? - mi pone la domanda con un tono mellifluo che nemmeno il lupo cattivo che si finge mamma capra per farsi aprire la porta dai sette caprettini. 
- Perché? 
Ho già perso, lo so. 
- Perché loro non hanno una mamma con un neo bellissimo come il tuo! 
Mi infila la mano sotto la maglietta e stampa la guancia sopra la mia tetta. 
Io comincio a ridere forte, ma forte, a cuore pieno. Ride pure lei e, dopo dieci minuti, sta già dormendo, la testa pesante su di me che, da quando è nata, sono il suo cuscino. 

Passi giornate avvilenti piene di no, capricci, pretese e lune storte e, invece di schiattare, a sera ti basta affondare il naso in quei piedini e sniffare quell'odore (no, non è puzza) meraviglioso per ricaricarti.
Ti regalano un disegno storto, un abbraccio senza motivo, ti dicono sei bella, mamma, mentre stai guardando altrove e ti pungono di felicità risanatrice che ti fa ripartire ogni giorno, come se non avessi già dato tutto quello che avevi. 
Se fosse solo difficile essere madre, nessuna ci riuscirebbe. Invece, a volte, è anche divertente da morire.
E allora non importa se la piccola zòllera stasera ha vinto la sua battaglia. Perché la guerra è ancora lunga e il divertimento è appena cominciato.


giovedì 8 giugno 2017

Smetto quando voglio

AVVERTENZA: 
Se siete arrivati a questo post perché SERIAMENTE interessati a trovare degli utili consigli su come gestire un momento delicato come l'interruzione dell'allattamento, allora NON continuate a leggere. Non sono consigli, non sono utili, soprattutto non sono SERI. Nessuno li ha mai messi in pratica e nessun bambino è stato maltrattato per la composizione di queste righe. 

Sei un’affiliata alla Leche League?
Ti hanno inculcato nel cuore e nel petto il dogma dell’allattamento a richiesta?
Sei stata per mesi e mesi una sorta di protuberanza  che fuoriesce dalla bocca del poppante, un’escrescenza carnosa a forma di donna, pronta a secernere latte umano ad ogni minima sollecitazione e in qualunque posizione?
E ci sei riuscita nonostante i dubbi espressi da tua madre, tuo marito, tua suocera e persino la donna delle pulizie, riassumibili nella fatidica domanda: “Ma hai abbastanza latte?”?
Hai dormito allattando, hai camminato allattando, hai nuotato allattando, ti sei seduta sul cesso allattando, hai guidato allattando, hai battezzato la tua figlioccia allattando, hai presenziato allo scrutinio finale con inserimento dei voti, allattando?
Quando tiri su la cerniera dei pantaloni devi stare attenta a non incastrare le tette pendule?
Sei convinta che il tuo pargolo abbia il diritto di smettere di ciucciare il tuo latte solo quando avrà deciso cosa fare dopo la maturità?
Allora questo non è il post che fa per te.

Se invece sei semplicemente una mamma che ha allattato per il piacere di farlo o per dovere o perché le è capitato, ma adesso si è sfrantumata le ghiandole mammarie, le si è prosciugata la riserva di prolattina e non vede l’ora di smettere e di riprendere possesso di una parte non accessoria della sua femminilità, seguimi.

5 METODI INFALLIBILI PER SMETTERE DI ALLATTARE.

1) METODO DELLA NONNA 1
Colorati il capezzolo e l’areola con il rossetto. Poi porgi il seno all’infante e sta’ a guardare cosa succede.
a. la creatura fissa l’orrendo cratere sanguinolento e si mette a urlare di raccapriccio. Smetterà di suggere ma sarà afflitta da incubi, tremori, fobie e sensi di colpa per il resto della sua vita.
b. la creatura osserva il simpatico papavero che ti è spuntato al posto del suo ciuccio, lo afferra gioiosa, ride e gorgheggia piena di stupore. Poi lo rilascia facendogli fare il caratteristico schiocco. Dopodiché si attacca beata inghiottendo latte e pigmenti idratanti e lenitivi.

2) METODO DELLA NONNA 2
Cospargi il capezzolo e l’areola con, a scelta:
- pepe rosso
- smalto amaro comunemente usato come deterrente allo smangiucchiamento delle unghie
- aceto di vino rosso
- sale
Poi porgi il seno alla creatura.
Se ne hai il coraggio.

3) METODO MOTIVAZIONALE
Imbottisciti di antibiotici, antidolorifici, antidepressivi, alcool, calmanti, sostanze psicotrope e cortisone. Poi, se ti reggi ancora in piedi, allontanati dalla creatura, fortemente motivata dalla considerazione che, sì, è vero, la tetta le mancherà, ma tu lo fai per il suo bene e per tutelare la sua salute. Quindi, vai a disintossicarti in una buona clinica.

4) METODO ALTERNATIVO
Spiega alla pompa idrovora che, ahimè, la tetta non c’è più, è andata via. Quando lei/lui ti guarderà con gli occhi di Bambi che ha appena visto la mamma morta, tu proponile/gli una simpatica attività alternativa. Soprattutto, non farti mai più vedere seduta.

5) METODO RUN AWAY
Scappa. Non restare lì, non fare inutili quanto penosi tentativi. Sparisci. Vai una settimana in un centro wellness con le amiche o iscriviti a un corso di sci di fondo in una località montana remota, soggetta a nevicate epocali con conseguente interruzione dei collegamenti con la civiltà.
Lascia tuo marito in ostaggio all’aspiralatte. Vedrai che lui ha gli argomenti giusti per convincerlo/la a smettere.
Anzi, non ce li ha.
Ma è proprio questa la sua arma vincente.

Post scriptum:
Per la cronaca: ho smesso di allattare la mia terza figlia quando lei aveva 20 mesi; le ho spiegato che la tetta "era finita", lei ha iniziato a piangere, io le ho proposto: "Andiamo a fare un bel gioco"? Lei ha detto di sì. L'unico metodo infallibile è essere pronte a smettere di allattare. 
Lo spiego meglio qui:

Come smettere di allattare in una mossa sola




POST CORRELATI

lunedì 5 giugno 2017

La vallata

Attenzione: post ad alto tasso di generalizzazione.
Ho fatto un unico fascio, è vero, ma non di tutta l'erba. 




Il motivo per cui mi piacciono i veneti (di montagna) (del Feltrino) è lo stesso per cui, a volte, non li capisco: la loro rigidità. 
Ed è anche il motivo per cui mi sono cari e allo stesso tempo estranei, dopo dodici anni di convivenza.

Semplificando, dunque, si può affermare che il feltrino tipico sia un po' rigido: non si piega e non si spezza, è temprato, solido, tutto d'un pezzo. 
Questo gli permette di non deflettere di fronte al dovere e alla fatica. Stiamo parlando di un popolo di lavoratori indefessi e di cittadini responsabili. Se una cosa può essere sistemata o migliorata, loro ci provano e, se non ci riescono, non se la prendono col Fato. 
Niente mollezze bizantine, nessuna rassegnazione auto-assolutoria, nemmeno qualche sacrosanta giustificazione climatica. 
Se c'è da organizzare un evento all'aperto e piove (ed è sicuro che piove) lo si fa e basta. 

La rigida organizzazione permette di far funzionare le cose. Se non hai senso del dovere e non ti attieni alle regole, è subito caos e monnezza nelle strade. 
E da queste parti è del tutto improbabile che succeda.
Ovviamente, resta poco spazio per la capacità di improvvisazione, dote che la maggior parte dei feltrini non ha bisogno di possedere, se per improvvisazione si intende quell'arte del risolvere i problemi inattesi, in modo estemporaneo, a volte geniale, spesso paraculo, che invece contraddistingue noi del sud. 
Se noi siamo individualisti, loro formano una squadra che corre come un sol uomo. 
Noi abbiamo imparato a convivere con i problemi; loro si rimboccano le maniche e li risolvono. 

Però succede come con i bambini che entrano in contatto solo con superfici igienizzate e pavimenti tirati a Lisoform: da grandi sviluppano pochi anticorpi e tante allergie. 
Così è con questo popolo, la cui capacità di tollerare lo sporco e l'inatteso è stata narcotizzata da quei livelli medio-alti di Bello e Ordinato dentro cui sono placidamente immersi.

La rigidità, dunque, è una reazione, serve al benessere della comunità: ognuno fa il suo dovere e le sorprese dell'ultimo momento diminuiscono. 
Il che significa che tutto scorre liscio. 
Il che significa anche: una noia tremenda. 
Girare per le strade di questa vallata è sempre piacevole, ma rischi l'effetto-circuito: sai già cosa troverai dietro la curva, perché tutto è sempre dove deve essere. 
Rassicurante o angosciante, a seconda di quello che vuoi dalla vita. 
A me va bene a giorni alterni; però, alla lunga, comincia a mancarmi il caos organizzato delle mie latitudini, quello in cui tutti si muovono senza ragioni o scopi apparenti, nulla è al suo posto, eppure alla fine trovi sempre quello che cerchi e anche di più. 
Stancante ma divertente. O viceversa. 
Qui, invece, trovi solo quello che è lecito cercare secondo l'organizzazione inflessibile : vale a dire che non trovi mai un panificio aperto, se lo cerchi di pomeriggio.

Questa è però gente su cui si può fare affidamento. Ricordo quella volta che era inverno e nevicava e sono rimasta a piedi con la macchina, in centro. L'avevo parcheggiata in sosta vietata, sulla via principale, per fare un salto in farmacia: al ritorno, la batteria era morta. Tre anziani signori, imponenti anche se stagionati (i cosiddetti “feltroni”), chiamati dal farmacista, me l'hanno fatta ripartire a spinta; poi, senza battere ciglio, sono rientrati nel bar a bere le loro ombre. 
Dalle mie parti, i vecchietti di quell'età se ne sarebbero rimasti seduti a giocare a briscola. 
Impressionata da tanta sobria potenza, mi sono convinta del fatto che un paio di solidi feltrini è la cosa migliore che tu ti possa augurare di avere attorno, sia quando ti si ferma la macchina, sia quando devi fare un trasloco. Li ho visti sollevare e trasportare lavatrici con la stessa naturalezza con cui noi mangiamo una granita con la brioscia per colazione.

Rigidità significa anche che la gente di qua funziona a compartimenti stagni, nel senso che tende a non mescolare cose e persone: i momenti conviviali seguono una rigida prescrizione secondo la quale gli amici d'infanzia non devono incrociarsi alla tua tavola con gli amici della scuola dei figli o con gli amici occasionali e di passaggio. Gli amici dell'aperitivo del venerdì sera non si incontrano con gli amici del pranzo della domenica. 
Mi sono chiesta perché facciano così: è un'abitudine trasversale a tutte le età e gli strati sociali della vallata. Credo che sia una questione di carattere: non si mescolano, non c'è verso. Deve essere perché sono un po' rigidi
Rigidi eppure fragili: non riescono a sostenere la tensione del rimescolamento, dell'imprevisto, del non programmato. 
Il fuori-circuito lo tollerano solo quando vanno in vacanza, da quel che ho appurato.

Io li adoro quando la loro rigidità è forza, è nerbo morale e civile; quando rigido significa solido e solidale. Qui non ti lascerebbero morire per strada, tirando dritto; è il codice dei montanari e dei pescatori. In montagna e al mare, si aiuta chi è in difficoltà. E questo è un punto in comune, uno dei pochi, tra loro e la mia gente. 
Queste persone hanno la schiena dritta come le penne dei loro Alpini; sono il popolo che si è bagnato in gioventù nel fiume sacro alla Patria, e che è diventato ritto e granitico come le montagne che lo circondano e gli serrano l'orizzonte.  E può essere maestoso e onesto come queste cime.
Somigliano al loro paesaggio, che non è molle e delicato come la campagna toscana, ma non ha nemmeno quegli strazianti contrasti tra l'infinitamente bello e l'irrimediabilmente brutto di certi panorami meridionali. 
Quel che è bello, qui, lo è senza drammi e misteri, senza tragedie o catarsi. 
È bello e basta. 

Ho vissuto in mezzo a queste persone, rimanendo foresta; eppure, mi hanno insegnato tanto, nel loro essere così diversi dalla mia gente.

Probabilmente, se uno di qui cercasse di spiegare a me come sono fatti i siciliani, metterei su un bel sorriso di scherno levantino e lo ascolterei con condiscendenza irritata, perché, come tutti i popoli che soffrono di un complesso di superiorità, noi siciliani siamo suscettibili e insicuri.


I veneti, invece, lo sanno tutti, bevono come marinai e bestemmiano con grande determinazione.
Ma quello dipende dal clima.  


(Foto di Sergio Innocente)

giovedì 1 giugno 2017

Il nòcciolo della questione

Quando ci siamo sposati eravamo due belle prugne mature.
Così succede quando l'amore dà i suoi frutti: due nòccioli si riconoscono uguali, strofinano le scorze, mischiano le polpe e poi fanno figli.
La forza di gravità che attira un corpo nell'orbita di un altro ha sempre origine da un centro duro e oscuro, nascosto sotto spessi strati molli.
Per sposarsi e fare figli è necessaria questa identità di nuclei: ti sento compagno perché dentro siamo uguali o simili e così è facile credere che sarà per sempre.
Magari ti accorgi che la polpa dell'altro è diversa, la buccia persino esotica; ma si sa che le differenze attirano.
Oppure sono simili anche i rivestimenti e allora l'abbaglio è più pericoloso, perché il simile è rassicurante.
Così ci si butta.
Se la scelta parte dal cuore, la vita insieme, invece, diventa più una questione di pelle.
Dentro, è necessario essere uguali per potersi amare ma, perché duri, è in superficie che bisogna giocare la partita.

Perché serve la scorza adatta per resistere al lento logorio della vita di coppia. L'eterno ritorno del lunedì mattina provoca un attrito che consuma l'involucro e intacca lo spessore della polpa: cambiano gli odori e i sapori, la prugna si secca.
E si sa che effetto faccia una prugna secca.
Se la pelle e la polpa erano non solo diversi ma anche incompatibili, è solo questione di tempo: il matrimonio è fottuto. Ma lo è anche se da fuori ci si somigliava: due scorze ugualmente egoiste o cialtrone sono destinate a consumarsi a vicenda, perché è più difficile perdonare a chi ti vive accanto i suoi difetti, se quei difetti sono uguali ai tuoi.

Eppure ci sono quei benedetti nòccioli che ancora si parlano e non sanno darsi pace di aver preso un così terribile abbaglio. Continuano a pulsare come due cuori nascosti e la storia va avanti, sbucciando e spremendo, finché non finisce.
A volte finisce da ferma: i due nuclei, in mancanza di alternative o semplicemente di coraggio, sono ormai diventati talmente inerti da non riuscire a spostarsi più, nemmeno per allontanarsi, e restano immobili a invecchiare insieme. La famiglia è salva, e tutto il resto è perduto.
Oppure finisce muovendosi: urtati da un terzo o quarto nòcciolo di passaggio, i nostri due centri si staccano, deviano, si separano.
È così che le famiglie si rompono. E poi, forse, si ricompongono in qualcosa di diverso.
Io e il mio nocciolo gemello siamo rimasti simili fino all'ultimo: cialtroni e simpatici e tanto ricchi dentro. Ma lui era diventato pesante come l'uranio impoverito; non attirava ma tirava giù, come le sabbie mobili di Battiato. 
Io ero già una prugna rinsecchita per astio, rinunce e rivendicazioni.
Nessuno dei due aveva più niente da dare, solo cose impossibili da chiedere all'altro. 
Entrambi sapevamo, per averlo provato, che altrove avremmo potuto funzionare meglio. Insieme, eravamo ormai solo la somma di due egoismi caotici e stanchi. 

Quando l'altro inizia a rinfacciarti quello che fa per te, è un segnale inequivocabile: significa che siete arrivati alla frutta, con o senza nòcciolo. Significa che ognuno ha cominciato a sognare e a desiderare per sé, non più per due.

Proprio perché il mio matrimonio è finito, so per certo che i matrimoni possono funzionare e ora so anche come.
Basta avere sempre voglia di prendersi cura dell'altro, o essere convinti che ne valga la pena; è giusto ricevere quel che si dà.
Basta non dare per scontato che la propria fatica sia sempre più grande di quella dell'altro, così come la propria ragione.
Basta non credere che l'altro debba comunque dare, anziché sentirsi grati perché continua a farlo. Basta darsi il cambio, ogni volta che si è così stanchi da avere voglia di scappare. Solo in quel caso, infatti, dopo esser scappati, si torna.
Basta che non sia necessario dover essere diversi, per essere amati; e sentirsi invece pronti a cambiare qualcosa di sé, non perché l'altro lo esige, ma proprio perché non lo fa.


In certi casi, purtroppo, queste cose non basta saperle e nemmeno volerle.
In certi casi, semplicemente, l'amore finisce.

E i figli, certo, soffrono. Ma non è detto che questo sia il prezzo più alto che due genitori infelici possano far pagare a un figlio.

Quando arriva il momento benedetto in cui riesci a tirarti fuori dalle sabbie mobili, comunque, hai solo voglia di fare un giro di danza in punta di piedi.

Da allora, io ballo.

(Questa l'ho scritta per Paola dagli occhi grandi, la vicina di casa che avrei voluto avere; perché un giorno mi ha chiesto: eravate così carini tu e Solal, nel blog! Cosa vi è successo? Ecco, Paola)