venerdì 2 dicembre 2016

La via di Schenèr





Durante l'autunno, agli abitanti della ridente e piovosa cittadina di Feltre è capitato di leggere o sfogliare un bel libro, scritto da un giovane storico di queste parti: La via di Schenèr, di Matteo Melchiorre, edito da Marsilio. 
La gente del luogo deve essere stata colta da orgoglio e sorpresa: e per la qualità del testo e per l'argomento trattato. 
Racconta Melchiorre che, tra i monti qua dietro, si apre una via lunga secoli e decine di chilometri, la via di Schenèr appunto, che ha attraversato confini e collegato popoli e domini nemici e che è stata snodo fondamentale degli scambi commerciali tra todeschi e veneziani. Questa via peculiare ha avvicinato il Nord al Sud d'Europa e separato invece piccoli paesi limitrofi, segnandone  a un tempo la contiguità e l'alterità.

Giunta già adulta ai piedi delle Dolomiti, ho fatto anch’io le mie belle passeggiate in montagna, ammirando creste puntute e pendii villosi di boschi, con l’occhio sospettoso dell’isolana che si lasciava nondimeno ammaliare dalla potenza naturale del paesaggio alpino. Ma soffro di vertigini e ho il baricentro alto, per cui lo sci no, non m’ha preso. E i sentieri che accarezzano i precipizi, le pareti lisce, gli strapiombi da cuore in gola, li ho affrontati poche volte e sempre con i capogiri in agguato. 
Eppure, per quanto io sia abituata a considerare domestici ben altri tipi di paesaggio, dentro La via di Schenèr ho percepito la familiarità di un orizzonte che avevo sempre ritenuto alieno. 
Leggere dell’aspra via di Schenèr - questa vertiginosa cerniera tra Impero asburgico e terraferma veneziana, che ha inghiottito nei secoli uomini e bestie - toglie il fiato come certe vedute improvvise che ti si aprono davanti quando sali in montagna. 
Nei lunghi anni che ho trascorso in questi luoghi, mi sono spesso sentita al confino. E non era confino ma confine, questo che abitavo. Grazie  alle pagine di un libro, l'ho capito. 

La via di Schenèr è un ibrido di pregio e fascino: un testo liminare come l’antica strada commerciale di cui riscopre la storia, sospeso com’è tra scritto letterario e indagine documentaria. 
Non sono del mestiere e posso solo intuire la qualità della ricerca storica che ne costituisce il fondamento. Eppure, non v'è dubbio alcuno che questo racconto dei luoghi e delle vie tra i luoghi - e delle vite tra i luoghi – abbia un purissimo valore letterario. 
Perché la storia può essere raccontata in tanti modi ma solo alcuni di questi diventano letteratura. 
Ciò avviene quando le parole scelte delineano una fisionomia stilistica precisa e riconoscibile, diventando lingua d'autore. 
Melchiorre descrive, narra e ragiona con un lessico la cui nitidezza e precisione ricordano certi mattini invernali, quando l’aria è così limpida che sembra ingrandire i particolari, tanto si stagliano netti. 
Quando sai usare il termine esatto, non per sfoggio sinonimico ma per devozione al dettaglio e, al contempo, la tua lingua non solo definisce e convoglia con nitore, ma indovina e coglie anche le sfumature e i passaggi fuligginosi, allora, secondo me, stai facendo letteratura, non solo storia. 
D’altronde, Melchiorre non è uno che parla coi morti (ché a quello siam buoni tutti); al contrario: sono i morti che parlano con lui e lo vengono a cercare nelle vie notturne e tra i faldoni d’archivio, facendo capolino da foto sbiadite di ruderi e panoramici quadri antichi. A quei morti Melchiorre presta ascolto atterrito e forse nostalgico. 
E, oltre alla nostalgia, c'è anche pietà stupita per le fatiche umane che durano secoli e che nel giro di pochi anni svaniscono su pochi tornanti asfaltati; e calmo entusiasmo per l’epica dell’uomo e dell’asino dalle some inaudite, che macinano chilometri in salita tra vie sassose e scabre. 
Uno storico sa prestare orecchio alle voci che giungono dagli schedari d’archivio. Le sa andare a cercare, sa interrogare le carte, sa farle parlare. Ma è solo il vero narratore che riesce a dare loro voce. 
Ascolto e parola, con mitezza e potenza. 

Non lo conosco di persona, Matteo Melchiorre, ma deve sicuramente possedere la pazienza e il rispetto, la forza tentennante e la delicatezza fiduciosa che si ritrovano nelle sue pagine. E un'autoironia elegantissima.   

So che è un viaggiatore nel tempo dagli scarponi grossi e la penna fine; uno scalatore che soffre di vertigini, uno storico e un vero narratore. 

La Via di Schenèr va letto, e presto.