martedì 2 settembre 2014

Ibis redibis

Ad alcuni è dato di crescere in un luogo per doverlo poi lasciare. C’è chi va via perché deve, chi perché lo vuole. Spesso, la vita, l’amore e il lavoro si trovano altrove, in luoghi più o meno lontani, più o meno diversi. Nel nuovo luogo si costruisce: ma è solo da dove si è partiti che si può continuare a tornare. 
E ogni anno, spinti da una forza inspiegabile ma nota, risaliamo la corrente come i salmoni e torniamo al punto delle nostre partenze. 
È il luogo che continueremo a chiamare sommessamente casa; ma a bassa voce, perché gli altri non sentano. 
È il luogo in cui il tempo si è fermato anche quando continua a scorrere; in cui rimani sempre lo stesso pur essendo cresciuto; in cui ritrovi ogni cosa anche se tutto è cambiato. Non deve per forza essere bello; basta una piazza, un bar, la casa, un campetto e l’orizzonte. Questo luogo parla attraverso un lessico condiviso solo da quelli che gli appartengono. Non attira tutti, solo i suoi figli. Di solito, più il legame con il luogo di partenza è forte, più lontano si riesce ad andare. 
Poi però si torna, ed è sempre un ritorno ad immersione integrale, mani testa piedi e cuore, difficile da spiegare a chi, a differenza di noi, da lì non è partito. 


Il luogo della mia partenza e dei miei ritorni ha una bellezza violata che riesco ancora a cogliere, nei suoi residui, con la cieca ostinazione di un’innamorata delusa. È diventato, negli anni, talmente tanto brutto, che l’immersione totale mi scortica ogni volta. E però mai potrei non tornare. Perché il mare è dappertutto, ma il mio è solo qua. Bisogna tornare per osservarlo e ritrovare la sua forma, ogni anno sempre uguale, benché il mare non stia mai fermo. 

Oggi c’è la calmerìa di scirocco, cielo e acqua dello stesso colore, i rumori ovattati. Domani arriverà il vento canale, i cavalloni imbizzarriti che ti strappano il costume e tutto vola via, ombrelloni teli giornali. Il vento canale dura a lungo, così a lungo che c’è chi impazzisce. E poi, senza avvisare prima, viene il vento di terra: liscia la superficie del mare che diventa pigra e ondulata, come una coltre stesa sopra i corpi di due amanti senza fretta. 
Chi è cresciuto qua sa che in spiaggia si parla del mare e della forma dell’acqua e ogni giorno ci si scambia il bollettino dei venti e delle correnti. Poi i pettegolezzi, i libri iniziati e mai finiti, le elegie del pomodoro che sa di pomodoro, le confidenze tra amici che non si vedono da un anno e che vengono riprese esattamente dal punto in cui si erano interrotte l’anno prima. 
Quando torni nel posto da cui sei partito, non trovi fili recisi che si spezzano e lasciano buchi; c’è solo da riprendere l’intreccio, la trama non conta, perché è sempre la stessa. 


Quanto tempo si deve concedere, ogni anno, al ritorno? Due settimane? Un mese? Di più? 

Il tempo di fare la conta di chi è partito e non è tornato, delle sedie rimaste vuote fuori dagli usci, delle porte di case che nessuno riaprirà. Il tempo di vedere che, grazie a dio, qua non cambia mai nulla. Il tempo di farti avvolgere dalle spire dei giorni uguali e prevedibili, di rannicchiarti dentro quella comoda culla che oscilla sempre con lo stesso ritmo e che non è diventata troppo stretta, nemmeno adesso che sei cresciuta. 
Il tempo di farti riconoscere dal tuo cielo, comporre l’inventario dei ricordi, inghiottire le tue madeleines fatte di pane caldo e frutti di stagione, salutare chi se n’è andato e chi resta. Darsi il tempo di aspettare la pioggia di fine estate e benedirla quando arriva. 

Io ritorno per ripartire ogni volta, perché chi non si muove mai non è vivo. 
Ma ripartire senza mai tornare sarebbe un ben triste modo di muoversi su questa terra.

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