sabato 25 gennaio 2014

Tiralatte

Sono in aeroporto. Da sola.
Cosa vuol dire da sola?
Vuol dire che non ho nessuna bambina appesa al collo.
Vuol dire che nessuno mi sta macchiando il bavero della giacca con muco verde e rigurgiti di pastina mellin. Vuol dire che in borsa non ho yogurt che si aprono e inondano l’inondabile.
Vuol dire che posso stare seduta anziché inseguire un bipede di sessanta centimetri che fa il grande slalom in mezzo ai trolley. Con la fronte, lo slalom.
Vuol dire che nessuno mi sta chiedendo acqua, pipì, gelato, giocattoli; vuol dire che non ci sono bambine che stanno litigando nel raggio di tre metri quadrati di cui sia responsabile io.
Vuol dire che nessuno mi sorride partecipe e mi si avvicina chiedendomi: sono tutte sue, signora? Complimenti!
Vuol dire che nessuno in questo momento sta facendo segreti scongiuri pregando di non finire seduto vicino a me per non essere alla portata delle tre bestie bionde, delle loro mucose, dei loro ditini appiccicosi. E non sanno che la bionda numero due rutta.
Non devo correre, non sto sudando, non reggo tre barbie con una mano e quattro giubbotti rosa con l’ascella. Essere sola vuol dire che posso guardarmi attorno con agio, osservare i passeggeri, fare i miei riti apotropaici pre-volo in tutta concentrazione, senza dovermi per questo preoccupare che una o due delle bambine finiscano intanto tra le fauci dei cani antidroga.
Significa che anche se adesso ho paura che l’aereo precipiti, almeno so che la mia stirpe non si estinguerà con me, perché la mia progenie è sana e salva a casa. Con il loro papà. E con la Supersuocera.

Ma tu dove stai andando? Hai dovuto abbandonare le tue creature per un inderogabile impegno di lavoro? Un lutto improvviso? Un concorso? Cosa mai ti spinge lontano da casa?
Una festa.
Una festa?
Sì, una festa. Un mio amico festeggia i suoi quarant’anni ad Amsterdam. Vado due giorni ad Amsterdam per festeggiare.
Tu?
Io.
Una madre di tre, TRE bambine?
Sì, tre.
Non ho parole. E la Supersuocera che dice?
La Supersuocera non dice. La Supersuocera biasima.
Sarà dura, al ritorno. Te la faranno pagare, lo sai, vero?
Lo so.
Sei sicura che ne valga la pena?
Dipende.
Da cosa?
Dalla festa.

Now boarding. Aspetto seduta che la fila si esaurisca. Simulo l’espressione di una business woman annoiata e sola. Tremendamente sola.

C’è solo questo sgradevole formicolio, questo tic tic, questo pulsare lento del latte. Tic tic, una mammella si gonfia. Tic tic, si gonfia anche l’altra. Prima di notte, esploderanno. Inonderò i polder olandesi di latte umano, e a nulla varranno le loro dighe secolari.
Tic tic.
Se non altro, alla festa avrò una scollatura da urlo.
Di dolore.


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venerdì 17 gennaio 2014

Pantofole strette


- Ariane! Oh Ariane!
- Eh? Chi è?
- Sono la nonna Mela.
- Oh, nonnina bella, dove sei?
- In cielo, no?
- E non te lo potevi togliere il grembiule almeno in cielo?
- Io il fantale non me lo levo mai, lo sai.
- Ma a che ti serve? 
- Metti che, combinazione, devo lavare due piatti...
- Come ti trovi lì, stai bene?
- Tutto a posto.
- Potresti essere più precisa?
- No.
- Dai, raccontami. Ti hanno chiesto conto di qualcosa quando sei arrivata?
- Di cosa?
- Delle tue azioni. Ogni tanto, una storta la combinavi.
- Io? E che ho mai fatto di male io?
- Ad esempio, nonna, quella volta che sei venuta in macchina con me a casa nostra e hai voluto portare alla mamma sei galline vive, chiuse dentro uno scatolo nel cofano.
- Le galline fanno tante belle uova.
- Sì, se non muoiono durante il viaggio, come quelle sei.
- Quanto mi è dispiaciuto! Quelle belle galline.
- Poi c’è quella del pecoro Valentino.
- Il pecoro Valentino! Me l’ero dimenticato.
- Non ridere, nonnina! La storia di Valentino ci ha segnate per sempre, me e le mie sorelle. Un agnellino bianco e marrone, che il pastore aveva portato al nonno il 14 febbraio. Tu lo allattavi col biberon, lui ti seguiva dappertutto, ti stava col muso attaccato all’orlo della gonna.
- Bellino era, Valentino.
- Il Lunedì di Pasquetta ce lo siamo portato al picnic. Un dolce agnellino che gioca sul prato coi bimbi.
- Quant’era bellino, Valentino.
- Sì, bellino. Però a Ferragosto ce lo hai fatto trovare arrostito nel piatto, Valentino.
- Buono era, Valentino.
- E tu te lo sei mangiato, nonna! Dopo averlo cresciuto e nutrito! Come hai potuto?
- Era carne. Ha fatto una bella vita.
- Lassù ti hanno perdonata per i tuoi gesti di crudeltà verso gli animali?
- Quale crudeltà? Il mangiare è mangiare.
- Comunque, nonna, se lì ti fanno storie, digli che hai fatto anche tante buone azioni. Di quelle che restano nelle vite degli altri. Hai cresciuto me e le mie sorelle e ci hai insegnato a fare il pane.
- Sì.
- E ci portavi al lavatoio per lavare a mano i panni. Anche se, te lo devo confessare, nonna, io i panni li lavo in lavatrice.
- La lavatrice è per i poltroni.
- Sì nonna.
- Bisogna sapere lavorare con le mani. Non si sa mai, le epoche possono cambiare, ci può essere una guerra.
- Una guerra, sì, nonna.
- ...
- ...
- Nonna.
- Sì?
- Me la dici una cosa importante, di quelle che aiutano a capire, a superare il dolore? Cosa devo fare? Io senza di te mi sento mezza.
- Certo figlia. Ascolta.
- Sì.
- Vai alla bottega.
- Sì. 
- Compra un paio di pantofole.
- Sì.
- Strette, però.
- Strette.
- Poi buttale.
- ...
- ...
- Nonna, che significa?
- Quello che ho detto.
- Non ho capito, nonna.
- Non c’è niente da capire.
- Così però il dolore non passa.
- Il dolore non deve passare.
- Ma diminuisce, almeno?
- Certo. E’ come il pane: più lo lavori, meno duro diventa.
- E come si lavora il dolore? Coi pugni?
- Con la fatica.
- Allora faticherò.
- Ricordati di metterti il grembiule mentre lavori.
- Posso prenderne uno dei tuoi, nonna?
- Sì. Sono in cucina, nel cassetto.
- Grazie. Allora ciao, nonna.

lunedì 6 gennaio 2014

Mela


Adesso che sono seduta in silenzio su questa sedia a rotelle mi è tutto più chiaro; so cosa conta veramente e cosa ci si può lasciare alle spalle senza rimpianti. 
Ad esempio conta la vista: vedere la faccia dei nipoti, i sorrisi di tua figlia, la foto di tuo marito, cosa c’è nel piatto. 
Se tutto diventa ombra e nebbia, se i colori scompaiono e la caligine ti circonda, e solo i suoni ti giungono, lontani, ovattati oppure improvvisi e amplificati, la vita diventa un silenzio accecante che ti schianta. 
Ecco come mi sento: come un albero schiantato da un fulmine ignaro. Mi manca la vista e la parola. Non vedo e non sento, e non per mia scelta. 
Vorrei dire: anch’io ti voglio bene, chiudi la porta che entra corrente, toglimi questa coperta, cosa c’è per cena. 
Vorrei poter rimanere in silenzio ma non posso parlare, quindi è il silenzio che rimane con me. 
Vorrei camminare, devo innaffiare il basilico in terrazza e controllare che il gatto non pisci dentro il vaso se no lo rovina. 
Ma la terrazza è lontana come una galassia e altrettanto irraggiungibile. 
Mi mancano le mie mani, che hanno lavorato sempre; eppure sono ancora belle, le dita affusolate, le unghie regolari. Sono sempre belle, ma ora qualcuno me le ha abbandonate in grembo, gonfie.
Il mio cuore batte a intermittenza, il sangue scorre rappreso nelle vene di creta, i miei capelli bianchi sono radi sulla cute rosea del cranio. 
Sono vecchia, sono malata, sono stanca. 
Ho vissuto tanto; da me discendono tutte queste teste chine sul mio viso, tutti questi occhi che mi scrutano straziati. Io sono pronta per andare, ma loro non mi lasciano. 
E non ho la forza per togliermi di dosso tutti i loro baci e per girare l’angolo e scomparire. 
Starò qui per amore, solo per amore.


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sabato 4 gennaio 2014

Ritornava una rondine al tetto

Partiti. 
La bionda intona il suo lungo e straziante canto d’addio (“addio Ciciiiilia, arrivedeeeerci, mi mancheraaaai, ma solo un po’!”); il furgone, inesorabile, volge il muso in direzione nord-nord-est. Solal detta le coordinate della partenza alla prima bambina, che le trascrive diligentemente sul diario di bordo; il canto della bionda si rimodula su toni di mestizia nostalgica (“addio Ciciiiilia, quando tornerò in estate non mi mancherai piùùù, ma mi mancherà F*****”). La neonata saluta il mare con un languido “bauuuu”. 

Nuvole minacciose si addensano sul versante nord dello Stretto. Il versante sud, invece, è baciato dal sole (e dagli dei). 
Ariane singhiozza mordendo il fazzoletto. 
Solal zufola. 

- Non capisco cosa ci sia da zufolare, Solal. Potresti avere un po’ più di rispetto per il mio strazio. 
- Beh beh beh, Ariane, i tuoi strazi mi straziano le balle da otto anni ormai: mi sono assuefatto. Scusa, ma adesso sono pervaso dall’ottimismo della partenza. 
- Il tuo ottimismo è fuori luogo. Non sai che questa potrebbe essere l’ultima volta che vedo mia nonna? 
- E’ quello che continui a dire da otto anni quando parti. Non ci casco più. 
- Ma adesso è malata. 
- Esagerata. Quella vi sotterra tutti. 
- Te compreso, spero. 
- Su su su, fammi un google maps che voglio vedere quanto tempo ci vuole per mettere la giusta distanza tra me e la tua terra. 
- Sei un ingrato. La mia terra ti accoglie e ti nutre. 
- Nutre? Nutre?! La tua terra produce veleni mortali come la pignolata; e me lo chiami nutrire? 
- No, lo chiamo dessert. 
- Appunto, vedi? Che poi non ho ancora capito con cosa è fatta, sta pignolata. Probabilmente contiene parabeni e altri derivati del petrolio. 
- Ma smettila, Solal, ti sei fatto delle belle mangiate di pesce, di che ti lamenti? 
- Del cocktail di gamberetti di tua madre. 
- Era buono. 
- Negli anni Ottanta, forse.
- La sua è una cucina vintage. 
- Infatti: deve essere sempre la stessa insalata di gamberetti da vent’anni, ormai. Probabilmente cambia solo la lattughina. 
- Ce l’hai con lei per il cocktail di gamberetti! Ora mi spiego il perché del tuo orribile gesto! Sei meschino e vendicativo. 
- Eh? Quale gesto? 
- Sì, quando l’altra sera hai sparecchiato e hai scosso via le briciole dalla tovaglia prima di piegarla. 
- Ma io che ne potevo sapere che per voi nativi “se si scotòla la tovaglia la sera, muore la suocera”?
- Soprattutto se a scotolarla è il genero. 
- Superstizione e ignoranza, Ariane. Meno male che viaggiamo verso la civiltà. Giuditta, scrivi sul diario di bordo: ore dieci e trenta, partiti. Direzione: la Civiltà.

La bionda intanto leva alto il suo canto d’addio, virando verso sfumature introspettive: “Oh oh oh, devo fare la caaaacca, non posso resiiiistere neanche un poo’!”.

- Solal, fermati alla piazzola di sosta e falle fare la cacca; io non posso, devo mordere il mio fazzoletto intriso di lacrime. 

Cinque minuti dopo, Solal scopre che la cacca della bambina ospita una colonia di larve bianche.

- I vermi, signore del cielo, le sono venuti i vermi! Ariane, perché questa bambina ha i vermi? 
- E che ne so io? 
- Le avete dato la pignolata! Dimmi la verità! 
- Io no! 
- Presto, ripartiamo, dobbiamo fare ritorno alla Civiltà! Giuditta, annota sul diario di bordo: emergenza sanitaria; si riparte, alla disperata ricerca di un antidoto alla pignolata. 
- Solal, la pignolata non fa venire i vermi. 
- Provamelo. 
- ... 
- Giuditta, annota sul diario di bordo: ore undici, la scienza si dimostra impotente di fronte alla piaga della pignolata. 
- Pignolata si scrive con una o con due "t", papà? 
- Con due, no? Senti la pronuncia “pi-gno-la-ta”. 
- Ok, grazie. 
- ...