martedì 27 giugno 2017

Zòllere di felicità.

Non è possibile che, a quattro anni e mezzo, questa bambina debba ancora dormire nel mio letto, attaccata a me come un mollusco alla sua valva, capace di addormentarsi solo se ci sono pure io nel letto e dopo la lettura della fiaba più lunga del libro di fiabe (“Vuoi che ti canti una canzone?” “Per favore, no, mamma!”).

Ieri sera ho cercato di farla ragionare, mentre lei frullava nel letto come un minipimer impazzito, mi stampava ripetutamente i piedini sullo sterno e mi sfruculiava sotto la maglietta alla ricerca del suo neo preferito. 
- Voglio il mio neo – piagnucolava. 
- Smettila di lagnare. Questo neo è mio, non tuo. Non vedi che ce l'ho io? Quindi è mio. 
- E allora perché tu dici “Questa patata è mia, me la mangio!”, se la patata è mia? Guarda, ce l'ho io!
E squaderna le gambe in una perfetta spaccata.
Tossicchio piena di imbarazzo. La carognetta mi ha fregata. Devo stare più attenta. 
- Comunque, Cocò, lo sai, vero, che quando ci trasferiremo nella nuova casa, tu avrai un lettino tutto tuo e dormirai da sola, senza la mamma, come fanno le sorelle? 
Risatina di scherno. Mi guarda con l'aria di una che non ci casca: è uno scherzo, vero? 
- Ascolta. Le tue compagnette dell'asilo... 
- Vuoi dire Emmafavero (nome e cognome in un unica emissione di fiato), Laura, Alessia e Aurora? 
- Sì, loro. Queste tue amichette, che tu sappia, dormono nel loro letto da sole o fanno la nanna nel lettone? 
- Non lo so. 
Fa la vaga, ora. 
- Allora perché non glielo chiedi, domani mattina? Scommetto che ognuna di loro dorme nel suo bel lettino, da sola, come fanno i bimbi grandi come te. 
- E va beneee - si esaspera subito lei - Glielo chieeedoo! 
Mi gira le spalle, piccata. Sa dove voglio andare a parare. 
Bene. Ho scelto il modo giusto: deve arrivarci da sola. Non posso sradicarla, spostarla in un'altra città, in un altro asilo e poi schiaffarla a dormire da sola in un letto, senza prima prepararla psicologicamente e nel modo più dolce e graduale possibile a quello che l'aspetta. 
Che poi, quando cerco di fare l'autoritaria e pretendo cieca ubbidienza PERCHEIOSONOLAMAMMA, in genere finisce che sono io a chiedere scusa e implorare il loro perdono. 
Mai confondere l'autorevolezza con l'autorità. Soprattutto se non si possiede né l'una né l'altra.

All'improvviso si gira. 
La luce nei suoi occhi non mi piace. 
- Mamma? 
- Sì, zòllera? 
(La chiamo “zòllera” ogni volta che ritrovarmela tra i piedi mi fa lo stesso effetto di scoprire le formiche nel secchio dell'umido.) 
- Lo sai perché le mie amiche dormono nel loro lettino e non con la loro mamma? - mi pone la domanda con un tono mellifluo che nemmeno il lupo cattivo che si finge mamma capra per farsi aprire la porta dai sette caprettini. 
- Perché? 
Ho già perso, lo so. 
- Perché loro non hanno una mamma con un neo bellissimo come il tuo! 
Mi infila la mano sotto la maglietta e stampa la guancia sopra la mia tetta. 
Io comincio a ridere forte, ma forte, a cuore pieno. Ride pure lei e, dopo dieci minuti, sta già dormendo, la testa pesante su di me che, da quando è nata, sono il suo cuscino. 

Passi giornate avvilenti piene di no, capricci, pretese e lune storte e, invece di schiattare, a sera ti basta affondare il naso in quei piedini e sniffare quell'odore (no, non è puzza) meraviglioso per ricaricarti.
Ti regalano un disegno storto, un abbraccio senza motivo, ti dicono sei bella, mamma, mentre stai guardando altrove e ti pungono di felicità risanatrice che ti fa ripartire ogni giorno, come se non avessi già dato tutto quello che avevi. 
Se fosse solo difficile essere madre, nessuna ci riuscirebbe. Invece, a volte, è anche divertente da morire.
E allora non importa se la piccola zòllera stasera ha vinto la sua battaglia. Perché la guerra è ancora lunga e il divertimento è appena cominciato.


giovedì 8 giugno 2017

Smetto quando voglio

AVVERTENZA: 
Se siete arrivati a questo post perché SERIAMENTE interessati a trovare degli utili consigli su come gestire un momento delicato come l'interruzione dell'allattamento, allora NON continuate a leggere. Non sono consigli, non sono utili, soprattutto non sono SERI. Nessuno li ha mai messi in pratica e nessun bambino è stato maltrattato per la composizione di queste righe. 

Sei un’affiliata alla Leche League?
Ti hanno inculcato nel cuore e nel petto il dogma dell’allattamento a richiesta?
Sei stata per mesi e mesi una sorta di protuberanza  che fuoriesce dalla bocca del poppante, un’escrescenza carnosa a forma di donna, pronta a secernere latte umano ad ogni minima sollecitazione e in qualunque posizione?
E ci sei riuscita nonostante i dubbi espressi da tua madre, tuo marito, tua suocera e persino la donna delle pulizie, riassumibili nella fatidica domanda: “Ma hai abbastanza latte?”?
Hai dormito allattando, hai camminato allattando, hai nuotato allattando, ti sei seduta sul cesso allattando, hai guidato allattando, hai battezzato la tua figlioccia allattando, hai presenziato allo scrutinio finale con inserimento dei voti, allattando?
Quando tiri su la cerniera dei pantaloni devi stare attenta a non incastrare le tette pendule?
Sei convinta che il tuo pargolo abbia il diritto di smettere di ciucciare il tuo latte solo quando avrà deciso cosa fare dopo la maturità?
Allora questo non è il post che fa per te.

Se invece sei semplicemente una mamma che ha allattato per il piacere di farlo o per dovere o perché le è capitato, ma adesso si è sfrantumata le ghiandole mammarie, le si è prosciugata la riserva di prolattina e non vede l’ora di smettere e di riprendere possesso di una parte non accessoria della sua femminilità, seguimi.

5 METODI INFALLIBILI PER SMETTERE DI ALLATTARE.

1) METODO DELLA NONNA 1
Colorati il capezzolo e l’areola con il rossetto. Poi porgi il seno all’infante e sta’ a guardare cosa succede.
a. la creatura fissa l’orrendo cratere sanguinolento e si mette a urlare di raccapriccio. Smetterà di suggere ma sarà afflitta da incubi, tremori, fobie e sensi di colpa per il resto della sua vita.
b. la creatura osserva il simpatico papavero che ti è spuntato al posto del suo ciuccio, lo afferra gioiosa, ride e gorgheggia piena di stupore. Poi lo rilascia facendogli fare il caratteristico schiocco. Dopodiché si attacca beata inghiottendo latte e pigmenti idratanti e lenitivi.

2) METODO DELLA NONNA 2
Cospargi il capezzolo e l’areola con, a scelta:
- pepe rosso
- smalto amaro comunemente usato come deterrente allo smangiucchiamento delle unghie
- aceto di vino rosso
- sale
Poi porgi il seno alla creatura.
Se ne hai il coraggio.

3) METODO MOTIVAZIONALE
Imbottisciti di antibiotici, antidolorifici, antidepressivi, alcool, calmanti, sostanze psicotrope e cortisone. Poi, se ti reggi ancora in piedi, allontanati dalla creatura, fortemente motivata dalla considerazione che, sì, è vero, la tetta le mancherà, ma tu lo fai per il suo bene e per tutelare la sua salute. Quindi, vai a disintossicarti in una buona clinica.

4) METODO ALTERNATIVO
Spiega alla pompa idrovora che, ahimè, la tetta non c’è più, è andata via. Quando lei/lui ti guarderà con gli occhi di Bambi che ha appena visto la mamma morta, tu proponile/gli una simpatica attività alternativa. Soprattutto, non farti mai più vedere seduta.

5) METODO RUN AWAY
Scappa. Non restare lì, non fare inutili quanto penosi tentativi. Sparisci. Vai una settimana in un centro wellness con le amiche o iscriviti a un corso di sci di fondo in una località montana remota, soggetta a nevicate epocali con conseguente interruzione dei collegamenti con la civiltà.
Lascia tuo marito in ostaggio all’aspiralatte. Vedrai che lui ha gli argomenti giusti per convincerlo/la a smettere.
Anzi, non ce li ha.
Ma è proprio questa la sua arma vincente.

Post scriptum:
Per la cronaca: ho smesso di allattare la mia terza figlia quando lei aveva 20 mesi; le ho spiegato che la tetta "era finita", lei ha iniziato a piangere, io le ho proposto: "Andiamo a fare un bel gioco"? Lei ha detto di sì. L'unico metodo infallibile è essere pronte a smettere di allattare. 
Lo spiego meglio qui:

Come smettere di allattare in una mossa sola




POST CORRELATI

lunedì 5 giugno 2017

La vallata

Attenzione: post ad alto tasso di generalizzazione.
Ho fatto un unico fascio, è vero, ma non di tutta l'erba. 




Il motivo per cui mi piacciono i veneti (di montagna) (del Feltrino) è lo stesso per cui, a volte, non li capisco: la loro rigidità. 
Ed è anche il motivo per cui mi sono cari e allo stesso tempo estranei, dopo dodici anni di convivenza.

Semplificando, dunque, si può affermare che il feltrino tipico sia un po' rigido: non si piega e non si spezza, è temprato, solido, tutto d'un pezzo. 
Questo gli permette di non deflettere di fronte al dovere e alla fatica. Stiamo parlando di un popolo di lavoratori indefessi e di cittadini responsabili. Se una cosa può essere sistemata o migliorata, loro ci provano e, se non ci riescono, non se la prendono col Fato. 
Niente mollezze bizantine, nessuna rassegnazione auto-assolutoria, nemmeno qualche sacrosanta giustificazione climatica. 
Se c'è da organizzare un evento all'aperto e piove (ed è sicuro che piove) lo si fa e basta. 

La rigida organizzazione permette di far funzionare le cose. Se non hai senso del dovere e non ti attieni alle regole, è subito caos e monnezza nelle strade. 
E da queste parti è del tutto improbabile che succeda.
Ovviamente, resta poco spazio per la capacità di improvvisazione, dote che la maggior parte dei feltrini non ha bisogno di possedere, se per improvvisazione si intende quell'arte del risolvere i problemi inattesi, in modo estemporaneo, a volte geniale, spesso paraculo, che invece contraddistingue noi del sud. 
Se noi siamo individualisti, loro formano una squadra che corre come un sol uomo. 
Noi abbiamo imparato a convivere con i problemi; loro si rimboccano le maniche e li risolvono. 

Però succede come con i bambini che entrano in contatto solo con superfici igienizzate e pavimenti tirati a Lisoform: da grandi sviluppano pochi anticorpi e tante allergie. 
Così è con questo popolo, la cui capacità di tollerare lo sporco e l'inatteso è stata narcotizzata da quei livelli medio-alti di Bello e Ordinato dentro cui sono placidamente immersi.

La rigidità, dunque, è una reazione, serve al benessere della comunità: ognuno fa il suo dovere e le sorprese dell'ultimo momento diminuiscono. 
Il che significa che tutto scorre liscio. 
Il che significa anche: una noia tremenda. 
Girare per le strade di questa vallata è sempre piacevole, ma rischi l'effetto-circuito: sai già cosa troverai dietro la curva, perché tutto è sempre dove deve essere. 
Rassicurante o angosciante, a seconda di quello che vuoi dalla vita. 
A me va bene a giorni alterni; però, alla lunga, comincia a mancarmi il caos organizzato delle mie latitudini, quello in cui tutti si muovono senza ragioni o scopi apparenti, nulla è al suo posto, eppure alla fine trovi sempre quello che cerchi e anche di più. 
Stancante ma divertente. O viceversa. 
Qui, invece, trovi solo quello che è lecito cercare secondo l'organizzazione inflessibile : vale a dire che non trovi mai un panificio aperto, se lo cerchi di pomeriggio.

Questa è però gente su cui si può fare affidamento. Ricordo quella volta che era inverno e nevicava e sono rimasta a piedi con la macchina, in centro. L'avevo parcheggiata in sosta vietata, sulla via principale, per fare un salto in farmacia: al ritorno, la batteria era morta. Tre anziani signori, imponenti anche se stagionati (i cosiddetti “feltroni”), chiamati dal farmacista, me l'hanno fatta ripartire a spinta; poi, senza battere ciglio, sono rientrati nel bar a bere le loro ombre. 
Dalle mie parti, i vecchietti di quell'età se ne sarebbero rimasti seduti a giocare a briscola. 
Impressionata da tanta sobria potenza, mi sono convinta del fatto che un paio di solidi feltrini è la cosa migliore che tu ti possa augurare di avere attorno, sia quando ti si ferma la macchina, sia quando devi fare un trasloco. Li ho visti sollevare e trasportare lavatrici con la stessa naturalezza con cui noi mangiamo una granita con la brioscia per colazione.

Rigidità significa anche che la gente di qua funziona a compartimenti stagni, nel senso che tende a non mescolare cose e persone: i momenti conviviali seguono una rigida prescrizione secondo la quale gli amici d'infanzia non devono incrociarsi alla tua tavola con gli amici della scuola dei figli o con gli amici occasionali e di passaggio. Gli amici dell'aperitivo del venerdì sera non si incontrano con gli amici del pranzo della domenica. 
Mi sono chiesta perché facciano così: è un'abitudine trasversale a tutte le età e gli strati sociali della vallata. Credo che sia una questione di carattere: non si mescolano, non c'è verso. Deve essere perché sono un po' rigidi
Rigidi eppure fragili: non riescono a sostenere la tensione del rimescolamento, dell'imprevisto, del non programmato. 
Il fuori-circuito lo tollerano solo quando vanno in vacanza, da quel che ho appurato.

Io li adoro quando la loro rigidità è forza, è nerbo morale e civile; quando rigido significa solido e solidale. Qui non ti lascerebbero morire per strada, tirando dritto; è il codice dei montanari e dei pescatori. In montagna e al mare, si aiuta chi è in difficoltà. E questo è un punto in comune, uno dei pochi, tra loro e la mia gente. 
Queste persone hanno la schiena dritta come le penne dei loro Alpini; sono il popolo che si è bagnato in gioventù nel fiume sacro alla Patria, e che è diventato ritto e granitico come le montagne che lo circondano e gli serrano l'orizzonte.  E può essere maestoso e onesto come queste cime.
Somigliano al loro paesaggio, che non è molle e delicato come la campagna toscana, ma non ha nemmeno quegli strazianti contrasti tra l'infinitamente bello e l'irrimediabilmente brutto di certi panorami meridionali. 
Quel che è bello, qui, lo è senza drammi e misteri, senza tragedie o catarsi. 
È bello e basta. 

Ho vissuto in mezzo a queste persone, rimanendo foresta; eppure, mi hanno insegnato tanto, nel loro essere così diversi dalla mia gente.

Probabilmente, se uno di qui cercasse di spiegare a me come sono fatti i siciliani, metterei su un bel sorriso di scherno levantino e lo ascolterei con condiscendenza irritata, perché, come tutti i popoli che soffrono di un complesso di superiorità, noi siciliani siamo suscettibili e insicuri.


I veneti, invece, lo sanno tutti, bevono come marinai e bestemmiano con grande determinazione.
Ma quello dipende dal clima.  


(Foto di Sergio Innocente)

giovedì 1 giugno 2017

Il nòcciolo della questione

Quando ci siamo sposati eravamo due belle prugne mature.
Così succede quando l'amore dà i suoi frutti: due nòccioli si riconoscono uguali, strofinano le scorze, mischiano le polpe e poi fanno figli.
La forza di gravità che attira un corpo nell'orbita di un altro ha sempre origine da un centro duro e oscuro, nascosto sotto spessi strati molli.
Per sposarsi e fare figli è necessaria questa identità di nuclei: ti sento compagno perché dentro siamo uguali o simili e così è facile credere che sarà per sempre.
Magari ti accorgi che la polpa dell'altro è diversa, la buccia persino esotica; ma si sa che le differenze attirano.
Oppure sono simili anche i rivestimenti e allora l'abbaglio è più pericoloso, perché il simile è rassicurante.
Così ci si butta.
Se la scelta parte dal cuore, la vita insieme, invece, diventa più una questione di pelle.
Dentro, è necessario essere uguali per potersi amare ma, perché duri, è in superficie che bisogna giocare la partita.

Perché serve la scorza adatta per resistere al lento logorio della vita di coppia. L'eterno ritorno del lunedì mattina provoca un attrito che consuma l'involucro e intacca lo spessore della polpa: cambiano gli odori e i sapori, la prugna si secca.
E si sa che effetto faccia una prugna secca.
Se la pelle e la polpa erano non solo diversi ma anche incompatibili, è solo questione di tempo: il matrimonio è fottuto. Ma lo è anche se da fuori ci si somigliava: due scorze ugualmente egoiste o cialtrone sono destinate a consumarsi a vicenda, perché è più difficile perdonare a chi ti vive accanto i suoi difetti, se quei difetti sono uguali ai tuoi.

Eppure ci sono quei benedetti nòccioli che ancora si parlano e non sanno darsi pace di aver preso un così terribile abbaglio. Continuano a pulsare come due cuori nascosti e la storia va avanti, sbucciando e spremendo, finché non finisce.
A volte finisce da ferma: i due nuclei, in mancanza di alternative o semplicemente di coraggio, sono ormai diventati talmente inerti da non riuscire a spostarsi più, nemmeno per allontanarsi, e restano immobili a invecchiare insieme. La famiglia è salva, e tutto il resto è perduto.
Oppure finisce muovendosi: urtati da un terzo o quarto nòcciolo di passaggio, i nostri due centri si staccano, deviano, si separano.
È così che le famiglie si rompono. E poi, forse, si ricompongono in qualcosa di diverso.
Io e il mio nocciolo gemello siamo rimasti simili fino all'ultimo: cialtroni e simpatici e tanto ricchi dentro. Ma lui era diventato pesante come l'uranio impoverito; non attirava ma tirava giù, come le sabbie mobili di Battiato. 
Io ero già una prugna rinsecchita per astio, rinunce e rivendicazioni.
Nessuno dei due aveva più niente da dare, solo cose impossibili da chiedere all'altro. 
Entrambi sapevamo, per averlo provato, che altrove avremmo potuto funzionare meglio. Insieme, eravamo ormai solo la somma di due egoismi caotici e stanchi. 

Quando l'altro inizia a rinfacciarti quello che fa per te, è un segnale inequivocabile: significa che siete arrivati alla frutta, con o senza nòcciolo. Significa che ognuno ha cominciato a sognare e a desiderare per sé, non più per due.

Proprio perché il mio matrimonio è finito, so per certo che i matrimoni possono funzionare e ora so anche come.
Basta avere sempre voglia di prendersi cura dell'altro, o essere convinti che ne valga la pena; è giusto ricevere quel che si dà.
Basta non dare per scontato che la propria fatica sia sempre più grande di quella dell'altro, così come la propria ragione.
Basta non credere che l'altro debba comunque dare, anziché sentirsi grati perché continua a farlo. Basta darsi il cambio, ogni volta che si è così stanchi da avere voglia di scappare. Solo in quel caso, infatti, dopo esser scappati, si torna.
Basta che non sia necessario dover essere diversi, per essere amati; e sentirsi invece pronti a cambiare qualcosa di sé, non perché l'altro lo esige, ma proprio perché non lo fa.


In certi casi, purtroppo, queste cose non basta saperle e nemmeno volerle.
In certi casi, semplicemente, l'amore finisce.

E i figli, certo, soffrono. Ma non è detto che questo sia il prezzo più alto che due genitori infelici possano far pagare a un figlio.

Quando arriva il momento benedetto in cui riesci a tirarti fuori dalle sabbie mobili, comunque, hai solo voglia di fare un giro di danza in punta di piedi.

Da allora, io ballo.

(Questa l'ho scritta per Paola dagli occhi grandi, la vicina di casa che avrei voluto avere; perché un giorno mi ha chiesto: eravate così carini tu e Solal, nel blog! Cosa vi è successo? Ecco, Paola)