giovedì 1 settembre 2016

Mani

- Mamma, quando tu non ci sei io non sto bene – mi dice la piccola di quattro anni, al telefono. 
La voce non trema: è un dato di fatto, registrato e comunicato. Lo so che sta bene. È coi nonni al mare, è contenta, si diverte. No, la sua è più una considerazione esistenziale e vale anche al contrario: nemmeno io sto bene, quando loro non ci sono. (Ok, quando non ci sono per più di una settimana). 
Io non sono le mie figlie, non sono solo la loro mamma; vengo da lontano, sono nata prima dei miei tre parti. Riguardo alla mia identità ho le idee abbastanza chiare. L’esogestazione è finita da un pezzo; ho imparato dove finisco io e dove comincia ognuna delle tre. E se lo so io, lo sapranno anche loro, a tempo debito. Mi pare una buona cosa. 
Senza di loro, dunque, io sono sempre io. Però, senza di loro, io non potrei vivere. 
Non è una frase fatta. Per me, almeno, non lo è più da questa estate. 
Ho avuto una fortuna immensa, il mese scorso, e ne sarò sempre grata al dio delle madri: la fortuna di poter raccontare una disavventura capitatami con la figlia mezzana, un brutto momento che è diventato presto aneddoto, racconto, non tragedia. Non la fine della mia vita. 
Una brutta febbre virale, sintomi trascurati, una capatina al pronto soccorso, giusto per essere sicuri che non fosse niente di grave. E poi, le condizioni che si aggravano di colpo e la discesa agli inferi. Una dottoressa con poca esperienza che interpreta i sintomi clinici in maniera un po’ scolastica. Pensavo avesse il virus intestinale, invece, nel giro di mezzora, mi ritrovo ad osservare su un monitor il cranio di mia figlia scansionato dalla Tac. E poi una corsa in ambulanza a sirene spiegate, verso un ospedale meglio attrezzato per le emergenze. 
Cinque ore è durato il mio viaggio nell’Aldilà. Poi è finita bene: non era quel che temevano, la bimba si è ripresa rapidamente. 
Ma cinque ore di immersione integrale nell’abisso della paura, del nulla, della fine, non lasciano indenne nessuno. 
Ho capito, ho visto, che non resta vita, senza lei o le altre due. Ho visto che non resta forza, benché ci si regga in piedi e si riesca a parlare, prendere decisioni, aspettare i risultati degli esami. C’è solo una paura cieca, da animale braccato senza via di scampo. Sai, lo sai subito, che finisce tutto lì. E che non esistono esseri umani al mondo, a parte loro tre, senza i quali finirebbe tutto. E sono certa che per provare l’orrore e la paura che ho provato io in quelle ore, bisogna essere madri. O padri. Non è dolore, non è privazione: è semplicemente la fine. 
L’ho vista, la fine, sulle palpebre di mia figlia che diventavano sempre più sottili e trasparenti, appiccicate ai bulbi oculari. L’ho vista mentre stringevo le sue mani e osservavo le unghie, le dita, quella perfezione creata dal nulla che sembrava stesse andando via. L’ha vista anche suo padre, lontano mille chilometri, senza quella manina tra le sue. 
Ho appoggiato la guancia sulla fronte di mia figlia e quella mano si è sollevata e si è posata sulla mia spalla, in un abbraccio lieve come una piuma che scappa da un cuscino. Leggera, ha spezzato il mio cuore in quel preciso istante. 
Che brutta avventura. Che bello poterla raccontare, sani e salvi. 
Ma da qualche parte, là fuori, tra i calcinacci e le macerie, sott'acqua, nei letti d’ospedale, ci sono storie che finiscono in un altro modo. Ci sono storie che finiscono. E io adesso so cosa vuol dire. Ma mai, mai avrei voluto saperlo.


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