giovedì 27 febbraio 2014

Autolesionismo primogenito



In principio lei era l’Unica; la chioma imperiale di ricci marroni, gli occhi lunghi ombreggiati dalle ciglia scure, la grazia di chi sa di essere stata attesa come l’Incarnazione. 
Con la maestà e l’innata sicurezza che la primogenitura regala, era la Principessa e sapeva che il mondo era stato inventato per lei. Amata e riverita, tutto era al suo posto, perché tutto era suo. 

Cos’altro avrebbe potuto desiderare? Niente. Invece le arrivarono in casa due sorelle. La Principessa cercò di capire la loro funzione; non vi riuscì. Provò a eliminarle; glielo impedirono. Non le restò che tollerarle. 

Eppure, negli anni che seguirono, non l’abbandonò mai quella sensazione di essere stata defraudata. Detronizzata. Deposta. 
Cercò invano di attirare l’attenzione della corte: ma era già bellissima, la prima della classe, ubbidiente come un tedesco. Come si fa a ottenere di nuovo le luci della ribalta, se sei già il meglio che la natura possa offrire? 

Io non so se il suo sia stato un calcolo o una mossa involontaria. Fatto sta che mia sorella Stefania è diventata, negli anni, la più stupefacente specialista dell’incidente domestico, la più grande nemica di se stessa, la protagonista di spettacolari cadute, un pericolo pubblico - essendo lei stessa sia il pubblico che il pericolo. 

Mi piace pensare che il suo sia stato solo un tentativo maldestro e autolesionista di ottenere quelle famose luci della ribalta. Solo che, invece della ribalta, quelle che in genere ha ottenuto sono state le luci dell’ambulanza. O della sala operatoria. 
Di seguito, l’elenco dettagliato di tutto quello che è riuscita a farsi succedere negli anni. 

A tre anni, ha deciso di darci un taglio: con la lametta di mio padre. Lei voleva solo togliersi i baffi. Risultato: cicatrice tra la narice destra e il labbro. Litri di sangue sulle piastrelle del bagno. 

Tutti i bambini si dondolano sulle sedie a dondolo. Lei, però, è riuscita anche a ribaltarsi e a finire contro uno spigolo. Cicatrice sulla fronte. (Notate, per favore, quante volte ricorrerà la parola “spigolo” in questo elenco). 

Tutti i bambini si rincorrono. Tutti i bambini si spingono. Tutti i bambini cadono. Lei però si rompeva pure la clavicola. La rottura della clavicola era d’altronde così comune, in famiglia, da essere considerata alla stregua di una malattia esantematica. Prima o poi tutti si beccavano una clavicola rotta. 

Negli stessi anni, correndo in discesa, è caduta e se l’è fatta tutta con la fronte. Parte della fronte è rimasta sull’asfalto. 

A nove anni, giocava a palla. Anziché calciare la palla, ovviamente, ha preso lo spigolo di una ringhiera di ferro battuto che le si è conficcato nel dorso del piede. Ahi. 

A quindici anni, si trovava sul retro di un Apecar insieme a sorelle e cugine (non fatevi domande inutili). L’Apecar si ribalta in curva e tutti cadono a terra. Incolumi. Tranne lei, che va a sbattere contro un spigolo. Quaranta punti sul cranio, un taglio lungo da un’orecchia all’altra. Litri di sangue sull’asfalto. 

A vent’anni, festeggia il Capodanno sull’Etna. Vede la neve per la prima volta. Scivola e si spacca il menisco. Ospedale, operazione, riabilitazione. 

Nel 2008, notando angosciata che le cicatrici su fronte e piede stavano inesorabilmente sbiadendo, decide di dare loro una rinfrescata. Va a parcheggiare la Vespa, cade, deposita sull’asfalto un pezzo di fronte, una fetta di coscia e un’unghia del piede. 

A più riprese e con cadenza regolare, da allora, è scivolata per le strade, inciampata, caduta: si è storta le ginocchia, si è traumatizzata il cranio, si è riempita di lividi. 
Qualunque cosa faccia, si sminchia tutta. Noi non ci facciamo più neanche caso. 

Stefi, smettila di farti del male. Non ce n’è bisogno. 
Tu hai intravisto il mondo senza me ed Ale e sai com’è fatto. Forse lo rimpiangi. 
Noi due intruse, invece, senza di te, non sapremmo più chi siamo. 

Buon compleanno. E guarda dove metti i piedi.



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lunedì 17 febbraio 2014

Come smettere di allattare in poche, semplici mosse

Qualcuno ha lasciato questo commento al mio post "Smetto quando voglio" (il più letto e il più contestato del blog, perché è un tema caldissimo): 

  "Ciao scusa sono curiosa...ma come è andata a finire ? la mia ciucciatrice folle ha 21 mesi e non accenna nemmeno sotto minaccia di bazooka né sotto una pioggia di coccole e giochi....ma poi smettono ? Non vedo luce e ho sonno un sonno atavico da 20 mesi ininterrotti di risvegli notturni....grazie" 

 Cara (do per scontato che tu sia una donna, perché sono una che ragiona per luoghi comuni), 

avevo iniziato a risponderti nei commenti in modo articolato, ma così articolato che ci ho fatto un post, questo.

Posso, senza tema di esagerare, considerarmi un'esperta in materia, avendo io smesso di allattare felicemente non una, non due, bensì TRE volte. Sono una di quelle che ce l'ha fatta, insomma. Come? Semplice: smettendo. 
Andrò per punti, non per essere sbrigativa ma per chiarezza: 

1. Intanto, se sei arrivata in fondo ai 21 mesi di allattamento, in condizioni che è facile immaginare solo per chi c'è passato, ti meriti subito che io ti dica questo: SEI STATA BRAVISSIMA! 

2. Per smettere, devi volerlo tu. Non ci possiamo certo aspettare che l'iniziativa parta da loro; non stiamo parlando del vizio del fumo, dove potrebbero servire le motivazioni forti del soggetto dipendente. Diciamoci la verità, tu smetteresti un'attività utile e piacevole che ti crea solo benessere, che non presenta controindicazioni (almeno per te) e che eserciti egregiamente e con estrema soddisfazione da sempre, senza che nessuno ti chieda nulla in cambio? 

3. Quando è il momento giusto per smettere? Come sopra: quando sei pronta tu. Facciamo che un minimo di sei mesi di allattamento ci possono stare; oltre l'anno diventa solo questione di comode abitudini. 
Piange? Lo attacchi al seno per calmarlo. Sei al parco e hai dimenticato la bottiglietta d'acqua o lo yogurt? Lo attacchi al seno. Devi addormentare la bestiolina ma non hai voglia di passeggiare, ninnanannare, sussurrare fiabe al buio o spingere su e giù un passeggino? Lo attacchi al seno e nel frattempo ti guardi una puntata della tua serie preferita, comodamente seduta sul divano. Ecco: queste, ovviamente, sono cattive abitudini, e le cattive abitudini si pagano sempre; nella fattispecie, si pagano con ore di sonno non dormite. Nessuno dei bambini allattati di mia conoscenza ha mai fatto un'intera notte di sonno senza reclamare la tetta (=ciuccio) almeno un paio di volte. Quei bambini esistono, ma sono quelli che vengono intontiti con una biberonata di latte in polvere prima di essere messi a dormire. La buona notizia è che, non appena avrai smesso di allattare, l'insonne comincerà a dormire tutta la notte. Te lo prometto. 

 4. Allora, sei pronta, e lo capisci perché ormai quando quello/a ti cerca la tetta, ti viene l'orticaria, la voglia di fuggire all'estero o quella di andare a chiuderti a chiave in bagno. 
Non lo eri un mese fa, né la settimana scorsa, quando continuavi a provare a smettere ma in realtà facevi solo finta e le tue inflessibili prese di posizione erano solo una timida e titubante proposta puntualmente accolta con lacrime e pianti e tu subito, giù il reggipetto! A questo punto, devi fare solo una cosa: quando la creatura ti si accosta con la sicurezza data da mesi e mesi di tetta facile, tu devi semplicemente dire di no. 

5. Facile a dirsi. Dunque, intanto, in quei momenti non stare seduta, alzati. Se ti vedono seduta ti zompano in braccio e in battibaleno sei bell'e munta. Poi, non basta dire di no, e nemmeno fornire spiegazioni, ragionamenti, considerazioni sul tempo che passa e aforismi. Al tuo no si scatena l'inferno: tu fai finta di niente e trova subito, SUBITO, un'alternativa. Crea il diversivo, e tieniti pronta perché in questi casi improvvisare può risultarti fatale. Ovviamente, questa operazione la dovrai fare ogni volta, non solo la prima e la terza; ogni santa volta. Finché non si rassegna. Lo farà, però tu non devi MAI, MAI cedere o recedere. Se lo fai anche una sola volta, sei fregata. Non farlo. 

6. Ho imparato che loro non sanno cosa fare, né cosa provare, se non glielo fai capire tu. Fanno e sentono quello che tu trasmetti: si chiama esogestazione e dura più o meno tutta la tua vita. Se dopo aver detto no metti su uno sguardo straziato, se mostri che il tuo cuore sanguina per lui/lei, è finita: penseranno che si sia appena abbattuta su di loro una terribile disgrazia. E soffriranno e tu pure e non resisterai al loro tormento e ricadrai nel baratro. Invece, sorridi. Parla con calma, mentre proponi di giocare con l'orsetto di peluche che loro faranno a brani con le fauci assetate di latte; fai finta che tutto sia sotto controllo. 
Sei convinta, serena, positiva e pensi già alle ore di sonno che ti farai questa notte. Ce la puoi fare, credimi.

7. E adesso arriva il momento più difficile: che non è quello in cui il bimbo piange disperato perché vuole la tetta negata dalla strega che sei, ma quello in cui lui o lei, dopo qualche tentativo, si rassegna. Asciugherà le lacrime e si metterà mestamente a giocare con te, o ti darà la manina e andrete a fare la vostra passeggiata. 
Quello è il momento esatto in cui ti si spezzerà il cuore: perché finisce lì uno dei periodi più belli della tua/sua vita. Non ti mancherà, ti dimenticherai cosa si provava esattamente, ti chiederai come diavolo hai fatto a resistere così a lungo, ma quel tipo di contatto fisico, occhi negli occhi, tetta in bocca, vita che fluisce veramente tra te e lui, sarà andato via per sempre. E sarai solo felice che ti sia stato concesso di viverlo. 
Ma non temere: non è che, all'improvviso, se può fare a meno della tua tetta, significa che può fare a meno di te. Non avrai mica pensato che fosse così facile, vero?

8. Ho allattato la mia prima figlia per diciotto mesi; la seconda per ventiquattro; la terza per venti. Ho smesso dall'oggi al domani, ma dopo essermi preparata per settimane. L'ultima volta, nei giorni in cui avrei voluto smettere ma non ero ancora pronta, per esorcizzare il mio senso di inadeguatezza, ho scritto quel post che hai commentato; era un post semiserio, in cui elencavo tutti i rimedi più improbabili e inefficaci di cui avessi sentito parlare o che mi fossero venuti in mente. Non ammetterò mai, nemmeno sotto tortura, che sì, un pomeriggio in cui ero sola in casa con lei, mi sono dipinta il capezzolo col rossetto e poi l'ho presentato alla bimba innocente. Lei lo ha guardato inorridita. Poi, però, si sarà detta che non tutto nella vita si può spiegare. E quindi si è messa a ciucciare come niente fosse. 

Comunque dopo un po', ci sono riuscita. Lei ha imparato che le tette non c'erano più (anche se sapeva benissimo che erano sempre ) e ha sostituito l'atto rassicurante e calmante del ciucciarmi con quello di tenermi una mano sul capezzolo. La mia prima figlia, invece, per anni, dopo la fine dell'allattamento, per calmarsi veniva a strofinare il ditino su un un neo in rilievo che ho proprio sopra il seno sinistro; ero io la sua copertina di Linus, il suo oggetto transizionale. Questo per dire che nulla finisce: si trasforma. 

(Per senso di onestà nei confronti di chi ha letto fin qui e per far capire quanto io sia attendibile come madre dispensatrice di saggi consigli, metto di seguito una serie di post correlati, da cui si evince con chiarezza quanto io sia una mamma di successo):









mercoledì 12 febbraio 2014

Captain Solo

Ogni mattina lui è là, al suo posto: troneggiante, dinoccolato, splendido. Pattuglia il corridoio sfiorando la parete con la spalla; si ferma ogni tanto a guardare il soffitto, osserva una ragazza che si getta ridendo in braccio a una compagna, oppure mangia la sua merendina con la concentrazione di un entomologo. 
La prima volta che l’ho visto, era seduto qualche fila davanti a me, in corriera, mentre accompagnavo un paio di classi a visitare un museo. Solo. Con un quaderno sulle ginocchia e la penna in mano, riempiva pagine su pagine. 
Se gli rivolgi la parola, piega il capo e ti porge l’orecchio, come se non sentisse bene. Invece è perché si concentra su quello che stai per dirgli. E’ importante ascoltare, quando qualcuno ti parla. Arrota la “r” e ha una pronuncia nitida come una mattina di febbraio, fatta di vocali altezzose e consonanti taglienti. Si esprime come un gentiluomo d’altri tempi, fuori tempo ma non fuori sincrono. 
Ed è bellissimo. Saranno gli occhi scuri e grandi, le labbra disegnate a broncio, il naso come una torre d’avorio. Saranno quelle gambe lunghissime, le spalle strette, quella tensione da elastico tirato, non ancora al limite ma pronto scattare con morbidezza. Non c’è niente di disarmonico in lui, è solo ancora bambino e arrotondato e dolce. 
Mi sembra un re, un cigno altero, un nobile in esilio che non ha patria in cui tornare. “Soffre di un leggero autismo”, mi ha confidato la collega.
Al cambio d’ora, quando passo davanti alla sua aula, non manco mai di sbirciare dentro: e lui è sempre là, in piedi vicino alla cattedra, che scruta la lavagna come se fosse un orizzonte gravido di eventi. 
Mi sembra speciale e bello. Speciale come gli altri ragazzi o come le mie bambine. E’ un’astronave con un uomo solo al comando, perduta su rotte intergalattiche, corteggia buchi neri e sfida l’antimateria. Se ha paura, non lo dà a vedere. Credo che sia una delle cose più belle che io abbia mai visto. Bello come la solitudine, bello come i mille modi per dire ti voglio bene, bello come un figlio. 
Gli altri sciamano e ronzano. Lui suona una musica senza note di cui ho una nostalgia infinita. 
Se fosse mio figlio, tremerei per lui, perché è fragile e duro come un albero maestro in mezzo alla tempesta.