lunedì 3 aprile 2017

Sei tutti i miei sbagli

Nella maggior parte dei film, si partorisce secondo un protocollo standard: donna sudata, paonazza e con l'occhio di Jack Nicholson in Shining; quando la voce fuori campo ordina di spingere, la donna lancia un urlo e il marito le dice trepidante “respira, amore, respira!”. A furia di urla e respiri da mantice, il bambino esce e tutto finisce in singhiozzi, lacrime di gioia e sguardi di felicità tra mamma, bambino e papà.
Così, quando è toccato a me, con la mia seconda figlia - visto che la prima era nata con un mesto cesareo in anestesia totale - al momento in cui l'ostetrica mi ha intimato: “Ecco, ci siamo: spinga signora!” io ho fatto un bel respiro e ho cacciato un urlo sovrumano che è durato almeno dieci secondi. Ero tutta soddisfatta, perché era stato proprio un urlo molto scenografico, da “Buona la prima!”.
L'ostetrica ha aspettato che si spegnesse l'eco e poi mi ha detto: “Bene, signora. La prossima volta, quando glielo dico, invece di urlare, spinga. E stringa forte le maniglie alla base della sedia, vedrà che l'aiuterà a convogliare meglio tutta la sua forza, anziché sprecarla nel fiato”. 
Umiliata ma fiduciosa, ho seguito il suo consiglio e ho scoperto, qualche secondo dopo, la differenza sostanziale tra una spinta cinematografica e una buona spinta nei parti reali. 
E ha funzionato: la testa di mia figlia si è incanalata dentro di me ed è iniziato il nostro faticoso cammino verso la luce, centimetro dopo centimetro, spinta muta dopo spinta muta. Mentre io spingevo e spingevo, quando eravamo più o meno a metà strada e avevo ormai esaurito da un pezzo forze, fiato, fiducia nella vita e speranza nel futuro, il padre della bambina, che stava da qualche parte lì davanti a godersi lo spettacolo, mi fa: “Coraggio, vedo la testa!” 
“Davvero?”, chiedo io felice, col sorriso di una Gorgone. 
“No, stavo scherzando!”, ridacchia il buontempone, facendo ripiombare me e la bambina in un abisso intrauterino di spinte inutili. A quel punto ho evocato tutte le forze ctonie, Iside, Giunone e la Grande Dea Madre, pregandole non di farmi partorire all'istante ma di mandare a lui, invece che a me, una piaga biblica di emorroidi da spinta. 
 “Comunque, è proprio impressionante” fa lui, ignaro di essere appena stato colpito dalla Maledizione della Puerpera “da qua sta uscendo proprio di tutto. Di tutto. Tranne che neonate”. 
E quello gli era sembrato il momento adatto per una critica bonaria e lievemente paternalistica. 
Io l'ho perdonato solo per lo sguardo che gli ho visto lanciare a sua figlia, non appena gliel'hanno messa tra le braccia, qualche migliaio di spinte dopo. Se l'abbiano perdonato anche le dee madri, non mi è più dato saperlo.

Il tempo e la vita hanno un unico verso: da dentro a fuori, da ieri a oggi, e non c'è niente da fare. Le mamme spingono, i bimbi escono. Le mamme faticano, i bimbi crescono.
Crescono anche se le mamme non hanno la minima idea di cosa si debba fare, nella maggior parte dei casi. Crescono anche se le mamme sbagliano, se urlano, se non urlano, se piangono quando non ce la fanno più o se ridono anche quando avrebbero voglia di piangere. 
Da parte loro, le mamme continuano a spingere anche quando non ne hanno più la forza e faticano anche quando sembra che non ci sia un senso o una ricompensa. E questo sia che i padri facciano la loro parte oppure no.
Tutto questo non è eroico; è solo stramaledettamente difficile. 

La mia bimba è uscita ed è cresciuta, dura come un sasso, fragile come un fiore di magnolia. Più dura e più fragile delle altre due: uno schiaccianoci di gommapiuma, compressa tra la maggiore e la minore; in questi anni, ha osservato e capito tutto, a modo suo, ma non ha mai spiegato cosa vuole, cosa sente. E io, risucchiata dai vortici che mi mandavano la vita in aria, ho lasciato che lei decifrasse da sola quello che ci stava succedendo. Sono stata vigliacca e lei non mi ha mai reso le cose più facili, mai. 
Crudele come una Sfinge, mi sfida ogni giorno a risolvere il suo enigma. Io. Una convinta che spingere significasse urlare. Una che non avrebbe saputo nemmeno come farla nascere, senza l'aiuto di un'ostetrica. 
Ecco, quell'ostetrica la vorrei accanto a me ogni giorno, vorrei che mi dicesse cosa fare, esattamente, nei momenti in cui la mia capacità di risolvere un problema è pari all'efficacia di una spinta cinematografica. La vorrei nei momenti in cui spingo e urlo a vuoto, quando forse basterebbe un respiro, un abbraccio o uno sguardo fermo, per calmare la rabbia, per lenire un dolore che non trova parole, solo sguardi. Vorrei che qualcuno mi fermasse, quando chiudo la porta sperando che lei non la riapra troppo presto; quando le dico “sei cattiva” anziché mostrarle come non esserlo. Quando non sono capace di ascoltarla, solo perché lei non dice nulla. Quando cedo, anziché tenere il punto, solo perché sono stanca, perché sono triste o arrabbiata, perché ho tutti questi panni da piegare e poco tempo da perdere dietro ai tuoi capricci, bambina cattiva. 
Ostetrica, dove sono le maniglie da stringere perché la forza non si disperda in fatica inutile? 
Ostetrica, stai accanto a me, dimmi qual è il trucco per non sbagliare. 
Dimmi cosa si fa, quando non si sa cosa fare. Perché se i miei errori li pagassi solo io, allora potrei pure cavarmela. Ma non è così e non è stato per niente giusto mandarmi a casa da sola con questa bambina e i suoi straordinari occhi di ghiaccio liquido che mi guardano, mi guardano sempre, non hanno mai smesso di guardarmi, da quando me l'hai messa in braccio dicendomi: “è stata proprio brava, signora!”, illudendomi che bastasse saper spingere per imparare ad essere madre. 


Con le altre due sbaglio, ma almeno so dov'è l'errore. Con lei non capisco mai, non riesco a sciogliere il mistero della sua rabbia e dei suoi no: eppure è quella che sta più dentro il mio sangue. Perché sono una seconda di tre, come lei. Perché non mi assomiglia, ma è forse quella che ha più bisogno del mio abbraccio. 
Oggi, dopo il suo ennesimo no senza motivo, anziché iniziare la solita guerra di logoramento quotidiano, mi sono seduta a terra, accanto a lei che rimaneva in piedi imbronciata. Non sapevo che fare. Poi qualcuno, credo l'ostetrica dentro di me, mi ha detto: aspetta. Ho aspettato. Ho aspettato in silenzio che la sua rabbia trovasse non le parole, che lei non usa mai per comunicare veramente, ma il gesto che risolve tutto. E poi il gesto è arrivato; si è seduta sulle mie gambe e siamo rimaste abbracciate. 
Lei rideva e io piangevo, e la Sfinge era volata via.





4 commenti:

  1. Al momento giusto io sono stata molto brava a spingere,oggi troppo spesso urlo e disperdo le mie forze. Mi hai dato un bellissimo spunto di riflessione. Il punto è che nessuno ci ha fatto un buon corso per diventare madri e non solo un corso pre-parto.

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    1. C'è chi ha l'amico immaginario; io ho l'ostetrica immaginaria. Quella che ti dice anche quale è il momento giusto per spingere.

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  2. Mi sono infilata dentro le tue parole d'un fiato. Grazie!

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    1. Grazie a te! Ricorda però di non sprecarlo, il fiato :-)

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