mercoledì 5 ottobre 2016

Ricordi di stagione




Vado in giro dicendo che l’estate è la mia stagione preferita, perché è quella in cui la mia pelle diventa liscia e si colora di salute; la serotonina pompa nelle vene, si possono scoprire le spalle e le cosce e andare in Vespa e mangiare granite e soprattutto non bisogna mettere le calze. Estate per sempre, sarebbe il mio sogno segreto. 
Eppure, la stagione delle intermittenze del cuore e della memoria involontaria è l’autunno; in particolare, il mese d’ottobre: ci sono nata e, ogni anno, ad ottobre sono cresciuta. Ma il dato anagrafico è solo un caso: questo è anche il mese in cui le radici ormai sepolte della mia famiglia hanno fatto i nodi più robusti, a cui torno ogni anno ad aggrapparmi grazie a ricordi che sporgono da sapori e odori.

Si concentra ad ottobre una messe di prodotti che rende le tavole contadine più ricche di quelle dei re; il mosto cotto con mandorle e cannella, che noi chiamiamo mostarda e che riempiva la casa e le narici con la nota pungente dei chiodi di garofano, insieme all’odore dei primi bracieri accesi di sera. I bastardoni, i fichidindia tardivi, più dolci e croccanti. I cachi (ma mia nonna diceva “cachì”), con la loro consistenza imbarazzante e quel gusto che chiama a sé e, se non sono maturi, allappa la bocca. 
Le noci nel cestino di vimini, i melograni così belli da vedere, coi chicchi da succhiare e sputare, e stai attenta che il succo macchia e non va più via. 
Le castagne: cotte al forno per conservarle tutto l'inverno o leggermente essiccate, mai bollite, raramente cucinate nel padellone da caldarroste. Avrei potuto morire congestionata e felice per le scorpacciate di castagne che mi facevo nella cucina di mia nonna. 
E poi le zippole alla ricotta per San Francesco, unte di frittura pesante nell’olio d’oliva. L’autunno non offriva la varietà dei frutti estivi e delle verdure dell’orto, ma ciò che si mangiava e il modo in cui veniva cucinato aveva più carattere e più sostanza di altri cibi stagionali. 
Così come l’aveva la vita semplice di quelle persone con cui sono cresciuta; “negri”, li ho sentiti definire una volta da un forestiero di passaggio, e che voleva citare il Lessico familiare della Ginzburg. “Negri” perché era gente che entrava in casa senza avvisare e senza bussare, che lasciava la chiave nella toppa esterna della porta, che non ringraziava se le passavi il pane o il sale a tavola. Che mangiava a testa bassa sul piatto e coi gomiti larghi, e aveva una casa coi mobili di fòrmica e le lenzuola ricamate; e conosceva la fatica e il lavoro che ci vuole per mangiare. 
Mi manca allo stremo quella cucina modesta che si riempiva di odori perché mia nonna, armata di fantale, faceva quello che le riusciva meglio: nutrirci. Non ci capiva, non ci assecondava: lei ci voleva bene dandoci da mangiare quello che c’era in casa, nel modo in cui lo sapeva cucinare. E il cibo era cibo, serviva per crescere (per ddubbarci, saziarci) non per costruirci attorno conversazioni, non per essere disposto con buon gusto - di cui eravamo sprovvisti - su eleganti piatti da portata che non avevamo. 
Mi manca quell’infanzia contadina e ruvida, durante la quale costruivo, mangiando, l’identità tra memoria e materia di cui sono fatti i miei ricordi migliori. 
Mi manca non poterla offrire alle mie figlie, perché quel mondo, che mi ha nutrita negli anni che formano, non esiste più. 

I sapori e gli odori di ottobre hanno dato forma all’amore e alla cura; e quella forma, per me, avranno per sempre. 
Mia nonna che si preoccupava che avessi mangiato a sazietà (“Ti faccio un uovo?” mi chiedeva alla fine di un pasto abbondante, convinta che il fatto che io avessi ripulito il piatto significasse che non era stato riempito abbastanza). 
Mio nonno che, con le mani ballerine per il Parkinson ormai avanzato, aveva impiegato un’intera mattinata per spellarmi tre castagne crude e farmele trovare accanto al piatto, al mio ritorno dall’università, perché sapeva che mi piacevano. 

Tre castagne malamente spellate, che torno a mangiare col ricordo, ogni ottobre, inghiottendo lacrime e gioia. 
Perché quel che è andato non torna, però c’è stato ed è stato mio.

2 commenti:

  1. ...e,molto,anche mio. Io aggiungo le sorbe intrecciate e appese a maturare e l'uva di tutti i colori e i sapori. E le cotogne con cui fare la cotognata

    RispondiElimina
  2. L'uva, sì. Anche le cotogne, che però a me non piacevano tanto e quindi non le ho inserite nel pantheon.

    RispondiElimina

Ogni volta che qualcuno visita questo blog senza lasciare un commento, da qualche parte, sulla Terra, un calzino resta spaiato. Aiutami ad evitare questo scempio.