- Pronto, Ariane?
- Ciao mamma.
- Ariane, non mi chiami mai.
- Mamma, ci sentiamo ogni giorno.
- Perché ti chiamo io!
- Appunto. Se smetti di chiamarmi ogni giorno, ti prometto che prima o poi ti telefono.
- ...
- ...
- E come vanno le cose, figlia mia?
- Che dire. Le bambine sono tante e mio marito è poco. Poco presente, poco amorevole, poco servizievole.
- Non sei felice con lui?
- Si, ma vorrei un altro marito. Anzi, no, vorrei lo stesso marito, ma diverso. È un desiderio irrealizzabile?
- Direi di sì. Io è da quarant’anni che cerco di cambiare tuo padre, ma senza risultato.
- Come hai fatto a resistere per tutto questo tempo?
- Avevo un metodo: quando proprio non ce la facevo più, mi sfogavo scrivendogli lunghe lettere piene di insulti. Gli scrivevo zoticone barbone disgraziato e gliele lasciavo sul comodino durante la notte.
- E lui?
- La mattina le leggeva.
- La mattina le leggeva.
- E ti rispondeva?
- No.
- Non ti scriveva anche lui delle lettere?
- No, mai.
- Insomma, scrivevi lettere a cui lui non rispondeva. Mi sembra un po’ frustrante, come valvola di sfogo.
- Sì, forse, ma non c’era nient’altro da fare.
- Avresti potuto lasciarlo.
- Ariane, io e te apparteniamo a due epoche diverse. Nella mia, ci hanno insegnato che, se una cosa si rompe, non la butti via: l’aggiusti.
- Mamma, a quel tempo le cose non erano fatte di plastica made in China.
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